Ho pensato di modificare la mia bio su Instagram in “avevo un fashion blog, un tempo” perché chi è che scrive un blog nel 2019? Non io, è evidente. Dal momento che l’ultimo post risale a febbraio. Ma “visto che me lo avete chiesto in tante” sono tornata. C’è qualcuno che ancora si azzarda a dirlo nelle stories “me lo avete chiesto in tante”? Perché ho smesso di seguire chiunque sia potenzialmente così autocelebrativa da poterlo fare. Probabilmente sono affermazioni come questa per le quali non ho più un blog. Non creano community, identificazione, affiliazione. Lo snobismo anti-social-media-establishment è controproducente. Anche se sono profondamente grata anch’io al balsamo lenitivo di tutti i messaggi privati. Ieri, grazie a uno di questi, la mia voglia di postare si è ricaricata fino al 100%.
E ora dovrei raccontarvi cosa ne è stato di me in questi mesi? Dovrei. Ma visto che in questo blog non ho mai raccontato un cazzo di veramente personale posso mica iniziare ora? Comunque bello sbaglio, bello, enorme! Non vi racconterò dunque questi mesi di buca, tanto più che la questione coinvolge altre persone, BUT. Posso dirvi che il 2019 per me è stata la svolta. O meglio la fine.
Della comoda, calda, sicura comfort zone nella quale stavo talmente bene da ritrovarmici dentro atrofizzata. E ora sono qui per raccontarvi la mia storia di rinascita, di empowerment, di come si affronta la vita quando ciò che vedi intorno a te sono solo coriandoli sbiaditi portati via dal vento sempre più lontano… Ovviamente no.
Ma era come stare a un party dove sono rimasti i tre sfatti che resterebbero a dormire sul divano a oltranza pur di non tornarsene a casa propria. Che è un po’ ciò che ho fatto io. Rimanere ancorata al divano. Quando tutto intorno a te dice datti una mossa il mio personale preziosissimo consiglio per voi è restateci pure un po’ svaccate su quel divano. Tanto prima o poi sarete voi stesse a non poterne più e affrontare il mostro che ci sta sotto vi sembrerà un piacevole diversivo. Ma rivendico il momento di immobilità, il periodo sabbatico, il tempo passato a pensare intensamente a come smettere di pensare. Se nella società attuale essere di fretta e non avere mai tempo è un vanto, vi dico che il vero lusso è perdersi in quel tempo. Assaporandolo sotto la lingua e poi dilatandolo come una Big Babol cercando di non farlo scoppiare.
Non ho scritto qui ma in questi mesi ero impegnata in un’intensa attività personale di journaling – perché scrivere è il mio sfogo preferito e l’amore di una vita – quindi mi sono dedicata alla tecnica del flusso di coscienza che poi, detta banalmente, è quella di scrivere un diario. Però dentro un’agenda giapponese con la copertina di pelle nera e la carta speciale. Per adeguarmi alla nuova definizione più cool.
Anche questo è un flusso di parole, non vi ho ancora linkato nessun nuovo shop super figo, né postato un 4x di street style. Avrebbe ancora un senso? Nel 2019? Se avete mai desiderato aprire un blog di moda per passione, perché avete idee da condividere o vorreste fotografare la gente al supermercato perché vi ispira, io ve lo dico, fatelo ora che è il momento giusto. Welcome back 2009.
Abbiamo fatto il giro completo e siamo tornati al via. Giornali e siti di moda (esistono? li legge qualcuno?) sempre ancorati ai contenuti pubblicitari, ora con l’aggiunta dei video sui gattini. Le influencer, le nostre amiche della porta accanto, ci propongono costumi da bagno con culi in primo piano da dodici angolazioni e spiagge diverse, in tre continenti differenti. Oppure, quest’estate, indossano magliettone tie-dye come quelle che mi macchiavano le dita quando le tingevo a mano nel lavandino del mio bagno negli anni Novanta. Solo che costano trecento Euro.
E quindi eccoci qui, come nel 2009, che non sappiamo che cavolo metterci. Per questo, vi ripeto, se aprite ora un blog autentico fate il botto. E il cash. Solo che poi vi sentirete in dovere di indossare le magliettone e di far spuntare il culetto ovunque. Che vi terrà a galla come una boa. Non ho nulla da obiettare in questo, colgo solo l’ironia nel fatto che in teoria il vostro focus di interesse sarebbero i vestiti.
Anyway. Avrei voluto scrivere un post anche sui miei due anni senza fast fashion, in 10 semplici punti. Ma poi a luglio ho comprato un paio di sandali da Zara e ho rotto la catena di virtuosismo. È che sono fatta così, non sarò mai un’assolutista. Mi piace cadere rovinosamente nell’eccezione e smentire la mia stessa teoria. Evidentemente trovo sia più eccitante così. Ma tanto ciò che conta nella vita, lo sappiamo, non sono le scarpe, ma love, uscire da quella comfort zone, le conversazioni con gli amici e l'(auto)analisi. Visto che mi contraddico da sola però non escludo il ritorno alla moda e la pubblicazione del suddetto post.
Perché mi piace ancora guardare, toccare, parlare di vestiti. Solo non attraverso lo specchio deformante di quei profili social o di brand luxury che banalizzano, normalizzano, sviliscono l’intero processo di Creazione di Moda.
Rivoglio immaginare una scrivania colma di bozzetti con i campioni di tessuto che si accumulano in bilico nell’angolo, la sarta nel backstage per l’ultimo ritocco che si punge il dito con l’ago, la dedizione e la passione, la solitudine e il furore dello stilista. E poi il frusciare delle stoffe. E la magia della moda. O il suo potere dissacrante.
Foto: Jurgi Persoons FW-2002
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My traditional post with inspiration from New York Fashion Week street style. This time I decided to sort the photos of looks I liked by colors. Starting with:
(Single photos below)
Photos via: manrepeller, fashionista, zimbio
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Vi è mai capitato, amiche, di aver rifiutato, con un no bello esplicito, il tentativo di un uomo di baciarvi ma lui abbia continuato a insistere lo stesso?
E amici vi è mai capitato di aver provato a baciare una donna nonostante lei si sia allontanata da voi scuotendo la testa, chiedendovi se magari con no tutto sommato intendesse sì?
Forse potrebbe essere colpa di un film. O meglio di più di un migliaio di film. Se state alzando gli occhi al cielo pensando all’ennesimo articolo sul sessismo e sul filone #metoo, avete ragione sì, si tratta di quello. Ma non solo. Anche di far riflettere su come quando cominci a fare caso a un certo dettaglio, una volta, poi due e poi tre, da quel momento in poi riconosci un pattern che ritrovi presentato uguale all’infinito. E riconosci che questo pattern contribuisce a spiegare come nasca un certo tipo di comportamento e come questo diventi o continui a essere percepito come “adeguato”.
Anni fa oltre all’articolo che analizza come “Love Actually” sia uno dei film di Natale più sessisti della storia (e la cosa buffa, anzi no, è che sia un film che di solito le donne adorano e gli uomini odiano), da qualche altra parte avevo trovato un accenno a come in una percentuale elevata di commedie, di action movie e di film in generale sia presente la scena di bacio “rubato”. Un bacio imposto. Va sempre più o meno così: nel film lui e lei (che non stanno insieme) a un certo punto hanno una discussione, litigano, lei sbraita, si allontana, ma lui all’improvviso la prende e la bacia. Lei è perplessa per un millesimo di secondo, strabuzza gli occhi ma poi lo guarda e ricambia il bacio apassionata. E poi si mettono insieme.
Dei cinque film che ho visto solo questa settimana (di generi e paesi di produzione diversi) due contenevano questa esatta scena. Lui la bacia senza che prima ci siano stati segnali chiari di un coinvolgimento emotivo (o sessuale) da parte di lei. Poi si mettono insieme e vivono felici e contenti. Da quando ho iniziato a far caso a questo dettaglio, tempo fa, si è trasformato in un pattern ricorrente, e mi capita troppe volte di ritrovare sempre uguale nei film. E ora, se avete letto queste parole e comincerete a farci caso, sarò un bello SPOILER di sceneggiatura anche per voi.
Durante la visione del film può far sorridere una scena come questa. Soprattutto nelle commedie, non siamo tutte lì aspettare che si mettano insieme? Perché tanto lo sappiamo già dal titolo che succederà. Ma perché però deve succedere proprio così?
Perché poi il problema è che la scena del film potrebbe riflettersi e ripresentarsi nella nostra vita reale. Immaginiamoci, amiche, a un appuntamento con un tizio con cui siamo uscite una, due o X volte, senza che ci sia stato alcun contatto fisico o particolare complicità, iniziamo a discutere su qualcosa, magari alziamo un po’ la voce. E lui all’improvviso ci sbatte contro un muro e ci bacia. It’s love, baby! Da quel momento conquistate all’istante, vero? Vediamo già i titoli di coda del perfetto inizio di una storia perfetta, no?
NO.
Nella vita reale ci chiediamo come sia stata possibile una cosa del genere. Eppure questo meccanismo lo vediamo messo in scena in un film su cinque (statistica mia). Film che abbiamo visto noi e che ha visto anche lui. Ed è un dettaglio piccolo e insignificante, direte forse, ma reiterato per anni e anni, sempre la stessa identica scena? Forse qualche uomo ha interiorizzato, ha cominciato a pensare che deve comportarsi così. Che sia un comportamento perfettamente adeguato.
Da qui in poi che male c’è nel dare un pacca su una coscia o a mandare la foto di un pene in una dating app subito dopo il primo ciao? In fondo non c’è nulla di male. Le donne nei film ridacchiano sempre per queste cose. Sono spiritose, loro. Le attrici nei film sceneggiati e diretti da uomini.
Ricordo anche un discorso di Reese Witherspoon, protagonista di tante commedie ma ora anche produttrice, che diceva che in quasi in tutti i suoi film doveva recitare una scena in cui succedeva un qualche casino e lei immancabilmente doveva chiedere al suo partner di turno, sperduta e impaurita: “Omioddio Bob e ora cosa facciamo??”. E lui rispondeva pronto: “Non preoccuparti piccola, ci penso io”. (Bob e piccola li ho immaginati io). Reese si chiedeva in quel discorso perché invece nella sua vita reale lei si risolvesse tranquillamente tutti quei casini da sola. E magari anche quelli degli altri, compresi quelli dei partner.
Il fatto è che se attraverso i media rappresentiamo la realtà in un certo modo, e sempre solo in quello, tenderemo per forza a credere che quello sia l’unico modo possibile di intenderla e di immaginarla. La realtà, la comunicazione, le relazioni. Anche se non è così. Ma soprattutto dobbiamo renderci conto che se la realtà viene rappresentata sempre in un certo modo e sempre solo in quel modo non si tratta di una casualità. C’è un motivo per cui gli uomini vengono presentati nei media come quelli che sanno sempre cosa vogliono e se lo possono prendere con facilità mentre le donne sognano un unico principe azzurro ma poi nella vita vera si accontentano e lasciano correre e si adattano anche se lui si rivela uno stronzo egoista. Il motivo si chiama potere. E i media contribuiscono ogni giorno a ricordarci, non solo nelle disparità di genere (questo era un esempio focalizzato su questo ma si applica anche a purtroppo molti altri aspetti della società) da che parte sta il potere. Un bel passo avanti lo si farà se cominciamo a renderci conto di questi meccanismi utilizzati per raggiungere un preciso scopo, per mantenere uno status quo, per influenzare i nostri comportamenti, se smascheriamo il come.
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Vi avevo già introdotto alla mia passione per i profumi e in particolare per la profumeria di nicchia. Grazie a 50ml ho scoperto ora Laboratorio Olfattivo, una maison olfattiva italiana che ancora non conoscevo. 50 ml è un online shop interamente dedicato al mondo beauty che offre una selezione di brand di skincare e di profumi decisamente ricercata e particolare. Hanno anche un negozio “fisico” a Milano, in viale Montenero 16, per chi volesse andare ad annusare di persona.
Dovunque voi abitiate potete invece ordinare online su 50ml anche alcuni marchi piuttosto difficili da reperire in Italia. Per quanto riguarda la parte skincare troverete Aesop, Dermalogica, l’australiana Grown Alchemist, e per capelli Oribe (se cercate uno shampoo secco provate il loro!) e David Mallet (amo la loro maschera N.2 Le Volume, l’unico “balsamo” che uso e non affloscia i miei capelli mossi).
Di profumi ce ne sono davvero moltissimi di nomi noti, iconici e nuovi emergenti interessanti, tra questi: Byredo, Comptoir Sud Pacifique, Escentric Molecules (i profumi molecolari che si adattano e cambiano sulla pelle di ognuno), L’Artisan Parfumeur, Nasomatto, Diptyque, Ouai e Fragonard.
Il mio ordine online su 50 ml che mi ha recapitato a casa le fragranze di Laboratorio Olfattivo è arrivato velocissimo – su Milano è attivo addirittura un servizio di consegna in giornata – e insieme ai profumi ho ricevuto diversi campioncini di prodotti skincare in regalo raccolti all’interno di un sacchettino di cotone profumato 50ml (che arriva con ogni ordine ed è perfetto ad esempio da riutilizzare in viaggio).
Ma veniamo al Laboratorio Olfattivo che per diverse ragioni ritengo un’ottima maison per cominciare a orientarsi nella profumeria di nicchia anche per chi si è appena avvicinato a questo mondo. Perché troverete un profumo dedicato a ognuna delle famiglie olfattive: fiorati, verdi, orientali speziati e così via. Quindi di sicuro ce ne sarà uno che possa rappresentare il vostro mondo. E perché ha anche un’ottima fascia di prezzo. Le bottiglie più piccole sono infatti sotto i 50 Euro.
Laboratorio Olfattivo è un progetto nato nel 2009 dalla passione di Daniela Caon e Roberto Drago per il mondo della profumeria artistica. Una collezione che vanta oggi 16 Eau de Parfum, la prima creata nel 2010 e l’ultima quest’anno. Comprende una linea “black”, con le fragranze con etichetta nera, Nerotic e Vanhera e l’ultima arrivata Sacreste, e quella del Laboratorio in fiore, con le tre fragranze fiorite MyLo, Nun e Decou-vert. Hanno anche una linea di diffusori per l’ambiente e di saponi profumati liquidi e solidi. Il packaging è volutamente minimale, tutte le bottiglie sono uguali, per dare importanza “all’unica cosa che conta, la fragranza, la cui qualità non deve mai passare in secondo piano”. Trovo il loro pack invece molto raffinato, comprese le belle scatole di cartone che racchiudono le bottiglie.
Queste sono le quattro fragranze di Laboratorio Olfattivo che ho scelto in base alle note che amo e le sensazioni che mi hanno evocato.
Ci sono creazioni che nascono in un lampo e quelle che sono frutto di meticolosa ricerca. È il caso di Sacreste. Sviluppato su una nota di incenso “di prova” ma molto apprezzata, ci si è poi lavorato sopra per otto anni (!) fino ad arrivare al profumo finale. Ho scoperto di amare gli incensi solo di recente, negli ultimi anni, ed è un ingrediente che più che associare a luoghi spirituali associo alla calma, alla quiete, all’introspezione. Pur essendo costruito su due note diverse ma complementari di incenso sulla mia pelle lo percepisco anche con un’impressione “di pulito” (forse il muschio?) che mi allontana in parte dal suo percorso olfattivo predestinato, l’incenso totale. Proprio per questo potrebbe piacere anche a chi di solito non è attratto dagli incensi.
Note di testa: Cisto Labdano, Elemi, Cardamomo, Zafferano
Note di cuore: Incenso superessenza, Fumencens, Hydrocarboresina, Cipriolo, Pepe Nero
Note di fondo: Legno Cedro Virginia, Legno Guaiaco, Cashmeran, Ambermax, Musk
L’interesse verso Nun (che non va pronunciato all’inglese ma con la U) si è acceso già dal suo nome, un palindromo, con il quale gli antichi egizi definivano l’acqua primordiale, ovvero il dio Nun. E nell’acqua nasce il fiore di Loto che la sera si richiude per poi aprirsi di nuovo ai primi raggi solari del mattino. Un fiore che è simbolo di rinascita. Nun è un omaggio a un fiore iconico e simbolico. Nun è un profumo che mi riporta subito alla carnosità dei petali appoggiati sull’acqua. Fresco e luminoso ma al contempo riscaldato dai raggi del sole, delicato eppure solido. Con sentori agrumati e di pera. Non è fiorato per ragazzine Nun, questo è certo.
Note di testa: Bergamotto, Limone, Pera, Neroli
Note di cuore: Loto bianco, Gelsomino grandiflorum, Ylang ylang
Note di fondo: Legni chiari, Ambra, Muschi
Mughetto e magnolia freschi, con il gambo verde appena tagliato e adagiati in un bicchiere di acqua minerale. Così sento Décou-vert, un altro profumo dal nome affascinante che gioca con le parole francesi “scoperta” e “verde”. E verde è decisamente il mondo olfattivo che il naso David Maruitte ha elaborato qui. Un tenero, fresco e chiaro fil vert che lega insieme tutte le note. Décou-Vert nasce dalla volontà di trovare un punto di incontro tra tre tipologie di fragranze spesso agli antipodi: le note floreali, quelle squisitamente vegetali e quelle definite verdi, racchiuse qui in una nuovo tipologia di bouquet.
Note di testa: Mughetto, foglie verdi
Note di cuore: Lillà, Gelsomino e Magnolia
Note di fondo: Muschi, legni chiari e polline di Magnolia
Un cioccolatino al rum e zafferano. Daimiris è raffinato, originale con note intossicanti e assai alcoliche di rum, cuoio, iris. Il tocco di zafferano – che personalmente sento in modo deciso – della prima fase vira poi verso un fondo confortevole di ambra e violetta sostenuto da sentori di terra. Perfetto per l’inverno, elegante, resinoso, unisex. Un gourmand non gourmand, un orientale che si può definire quasi “trasparente”. Perché pur essendo speziato non è un classico orientale molto corposo e quasi narcotizzante nelle sue spezie pungenti. Daimiris è cioccolato al latte, un liquore costoso, la pelle scamosciata. Profuma di lusso raffinato e retrò di una boutique con i pannelli di legno alle pareti che però vende abiti dall’anima ribelle.
Note di testa: Zafferano, Cardamomo
Note di cuore: Rhum, Iris, accordo “Daim”
Note di fondo: Ambra, Muschio
Post in collaborazione con 50ml.
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“We learn the most about ourselves and others when we’re uncomfortable” (Impariamo di più su noi stessi e sugli altri quando ci sentiamo a disagio). Ho sentito qualche giorno fa pronunciare questa frase in un video che stavo guardando su YouTube. Mi ha fatto pensare all’idea, ovvia e immediata, che un profondo disagio, o quello che siamo soliti definire come “toccare il fondo”, spesso è il vero unico motore dei nostri cambiamenti (purtroppo). Lo sappiamo e lo sperimentiamo tutti nella vita.
Ma mi ha fatto pensare anche a questo blog. A come io abbia progressivamente smesso di partecipare a sfilate o a eventi collegati alla moda proprio perché mi provocavano disagio. Un disagio dato dal vedermi sfilare sotto gli occhi un ambiente prosaico, gretto, maleducato, egocentrico e interessato al denaro quando i miei occhi idealisti volevano continuare a vederlo come un ambiente artistico e di creatività in fervente movimento.
Nei miei post ho sempre scritto e mostrato vestiti con l’obiettivo che potessero servirci a trovare il nostro stile. Il blog è fermo da un po’ di tempo proprio perché mi sono fermata a pensare se questo tipo di impostazione ha un senso, se serve ancora. Se mi piace ancora.
Perché mi è ormai chiaro che parlare di moda talvolta mi mette a disagio. Credo che i vestiti possano aiutare a chiarirci le idee su chi siamo o su chi vorremmo essere. A esprimere la nostra personalità, a renderla visibile agli altri, a valorizzarla anzi, anche quando magari ci sentiamo schiacciati. Dagli altri, dalle regole, da un mondo che ci vuole tutti uguali per essere apprezzati.
Gli stilisti del passato sovvertivano le regole di stile e hanno cambiato nel corso degli anni il modo di avvolgere i nostri corpi ma anche la nostra mentalità. C’è stato un tempo nel quale portare i pantaloni per una donna era considerato scandaloso. Lo è stato per la minigonna. Per il chiodo di pelle. Ancora adesso se ti vesti sempre e solo di nero trasmetti agli altri una presa di posizione sul mondo che va oltre gli abiti stessi che indossi.
Oggi se mi capita di dover raccontare per la prima volta a qualcuno che ho un blog di moda vedo sfrecciare negli occhi del mio interlocutore una serie di immagini che vanno dallo stacco di gamba fotografato dal basso verso l’alto, al fondoschiena sodo con il riflesso di una piscina che ci scintilla sopra, alla domanda “quindi sei un’influencer”? Al che mi tocca mettere le mani avanti e spiegare che no, “faccio una cosa diversa”. Che a volte persino scrivo. Non caption sotto alle foto di Instagram. Non con una scrittura adatta alla carta dei cioccolatini. (Perché piacciono tanto le frasi melense? Di questo non me ne farò mai una ragione).
Sempre qualche giorno fa ho letto un articolo – anzi lo ammetto, mi sono voluta fermare al titolo e all’occhiello – che annunciava trionfante come una nota influencer statunitense aveva lanciato la propria capsule collection di abiti e che questa fosse andata sold out in un giorno. In questo titolo credo si rispecchi lo stato del fashion system attuale. La notizia è il sold out immediato. Chi ha inventato e disegnato la collezione è uno stilista che lavora in incognito, come un ghostwriter. L’eroina della moderna storia di successo economico è l’influencer. Il mezzo le sue foto pubblicate su un social network. Se sono queste le favole e il lieto fine che scegliamo di raccontarci oggi non fanno per me.
Io non credo in un PIL che debba costantemente crescere, e rimanendo in ambito moda, non credo in un’industria che continua a spingere l’immissione a gettito continuo di quelli che considero pezzi di stoffa senza una storia, senza un contesto, privi di qualcuno che li ha concepiti per venderli, certo, ma con un po’ di affetto, di ispirazione, che ci ha cucito dentro un pezzetto della sua visione del mondo. Piuttosto rappresentano il contrario, abiti ai quali rimane attaccata la sporcizia e il sudore dei capannoni nei quali vengono prodotti. Di più sempre di più. Non credo in una moda che crede che sia sufficiente il timbro di un logo per comunicare “moda”, appunto.
Ho smesso di credere che più sia meglio. Dopo anni passati con una frustrazione perenne indotta da chi mi ripeteva che non avevo abbastanza follower per questa e quella collaborazione. Che i follower sono tutto. Che forse non ero all’altezza, non ero abbastanza. Ho semplicemente accettato la realtà. Che la mia è una realtà diversa e che mi va bene così. Ho il tipo di blog, di comunicazione, di concezione, che funziona magari più per mille che per diecimila persone. Ma sono persone con le quali mi sento in sintonia, che negli anni hanno sempre arricchito queste pagine con le proprie idee ed esperienze che hanno voluto condividere. Preferisco essere circondata da gentilezza che da polemiche e aggressività sfogata sui social.
Cosa ne sarà di questo spazio? Non voglio incitare allo shopping incondizionato visto che il messaggio che vorrei far passare è quello di riciclare, di ridare vita a ciò che già possediamo, di riscoprire il passato e di selezionare più attentamente il nuovo. Non lo so ancora quindi cosa ne sarà. Ma credo vada bene così. Il disagio del non sapere ancora esattamente quale sarà la direzione da intraprendere sarà il motore del cambiamento.
Foto:
copertina: Maison Martin Margiela, 1989
A.F. Vandevorst SS 2000, presentation at Paris swimming pool
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I like to keep me (and you) updated with the latest looks of fashion insiders I love. After last Winter’s edition here are Ada Kokosar’s new looks.
Photos via:
styledumonde, fashionista, vogue.es
harpersbazaar, elle.com, collagevintage, vogue.fr
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I’m back with Fashion Week Street Style. These are looks I loved from New York and London.
Photos via:
collagevintage, vogue.es, harpersbazaar
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After shirts here is more inspiration that comes from men’s fashion. While women’s trends are schizophrenic and go from lasting five minutes to others that we can’t bare anymore, men’s fashion is instead having a great time. In terms of quality, experimentation and conservation of the production techniques. In (luxury) men’s fashion there is still much (more) attention paid to fabrics, to how clothes are cut and dress the body. In addition to how to combine colours. Have you ever noticed the male colour palettes? Here are some examples from the recent Pitti and Men’s Fashion Weeks. In my opinion it is excellent visual inspiration for women, too. With a personal favourite: military green!
Photos via: fashionista, harpersbazaar, wwd, vogue.co.uk
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The Men’s Fashion Shows and Florence’s Pitti are over and a big bestseller of the male street style were definitely finished these printed shirts. Vintage inspired, with a Hawaiian print, flowers or a Hermès logo-horse-drawn motif. All shirts that we (women) could wear in the Summer as well. Where do we find them? Obviously in vintage and second hand shops you’ll find the best ones. The choice of the print is so important here: Hawaiian prints are ok but not ones that look as made for tourists. And whether you choose polo players, flowers or bold new-vintage prints the important thing is that the total outfilt doesn’t have to look too much. And do not wear these shirts with shorts and Birkenstock, of course. If it has to be a trend, than this one, I like it.
Photos via:
elle.com, fashionista, vogue.co.uk, vogue.com.au, wwd, styledumonde
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Eccomi tornata sul blog dopo una pausa (vacanziera e non). Online sono già cominciati i saldi estivi e una rapida occhiata nei principali online store (su net-a-porter e simili) mi ha fatto scaturire questa riflessione: avessi anche un budget enorme sarebbero davvero pochi i capi che acquisterei volentieri. Francamente non ne posso più dell’attuale “trend” che vede contrapporsi quello stile fatto di felpone e T-shirt oversize abbinate a sneakers-mostro (e di periferie anni Novanta in versione di lusso), allo stile iper-colorato, iper-dettagliato, iper-voluminoso che hanno metà delle influencers di moda su Instagram, con quelle maniche enormi o lunghissime, spacchi e stampe e rouches e mega bottoni ovunque. Per me è tutto troppo. E troppo poco pratico. Si crede spesso che io sia una fan del minimalismo anche se in realtà anche il troppo minimalismo invece mi annoia a morte, solo bianco e nero poi è troppo poco. E le silhouette sono le stesse degli altri due trend. Infine anche lo stile da ragazzetta sexy francese ha davvero stufato, con tutti quegli abitini a fiori che sembrano un po’ straccetti se non hai 22 anni. Quindi non mi piace più niente? Esattamente, il mio problema attuale è proprio questo. Mi piace molto poco di ciò che vedo in giro in ambito moda.
Cosa mi piacerebbe me lo ha fatto venire in mente questo film che ho visto qualche giorno fa: Song to Song di Terrence Malick (2017). Non vi farò una recensione, se avete visto The Tree of Life sapete già che Malick non presenta mai una trama con uno svolgimento e un dialogo lineare ma sequenze di immagini che suggeriscono stati d’animo e catturano momenti. Sta a noi metterli insieme e ricavarne una storia. Uno stile molto fotografico, di tanto in tanto anche un tantino artefatto. Che a me personalmente però piace. In questo film la costumista Jacqueline West ha fatto un ottimo lavoro, ogni personaggio femminile, anche donne che si vedono per un paio di scene soltanto hanno uno stile riconoscibile, una palette di colori propria e abiti in cui chiaramente vivono dentro. Mi piace molto ultimamante cercare ispirazione nei film perché gli abiti – visto che il film non dovrà sembrare datato dopo sei mesi – hanno sempre quello stile “a lunga scadenza”.
Lo stile del personaggio di Rooney Mara è quello che in particolare ha catturato la mia attenzione. La palette che amo – colori scuri ma non solo nero, che è abbinato a verde scuro, bordeaux, blu, celeste e denim – top e camicie non larghe ma nemmeno aderenti, abiti svolazzanti non troppo femminili ma nemmeno suora laica, quella morbidezza dei tessuti che ti fa intuire il corpo che c’è sotto, che li fa muovere al vento. Quello sì che è sexy. E qualche dettaglio che cattura l’attenzione ma non la distoglie dalla tua personalità. Vestiti in cui si possa vivere le proprie giornate e che non siano già una presa di posizione netta e definitiva di fronte agli altri ancora prima che tu apra bocca.
L'articolo Quando sei stanca della moda (di moda) sembra essere il primo su Blue is in Fashion this Year.