Cazzo gente! Per prima cosa: ho sempre sognato iniziare uno scritto con una parolaccia e adesso questo sogno si realizza per festeggiare le 100.000 visite del blog. Considerando che sono quasi due anni che qui non ci metto praticamente più piede la cosa è parecchio sorprendente. Comunque sia ricordo a tutti che lo spirito malato e pop (due aspetti che possono convivere insieme, fidatevi) di moviecinemania o cinema e dintorni che dir si voglia si è trasferito qui nel super sito klub 99. Chiunque può contribuire, visitatelo.
Narra la leggenda che Apocalypse domani abbia ispirato il cult con Sylvester Stallone Rambo. Girato nel 1980 da Antonio Margheriti, prodotto da Maurizio Amati (autore anche -sotto pseudonimo- del soggetto) per la Fida Cinematografica di suo padre Edmondo, Apocalypse domani racconta di tre soldati americani che contraggono in Vietnam un misterioso virus che li fa divenare cannibali, una volta tornati in patria vengono sottoposti ad una cura psichiatrica riabilitativa che sembra dare i suoi frutti. Improvvisamente invece proprio il giorno in cui uno di loro (Giovanni Lombardo Radice) esce per la prima volta dall'ospedale per buona condotta si scatena di nuovo in lui la furia antropofaga che si scoprirà presto essere anche contagiosa. Il folle, dopo aver morso una ragazza in un cinema, si barrica in un centro commerciale dove inizia a sparare a chiunque provi ad avvicinarsi. Arriva lì per cercare di farlo ragionare Hopper (John Saxon), il suo capitano che per salvarlo in Vietnam si è preso un morso dall'altro soldato (ancora ricoverato in ospedale). Capitano che lotta con tutte le forze a disposizione perché sente crescere dentro di sé il contagio, il desiderio di mordere carne umana. Action e splatter cercano di convivere in questo film che se da una parte prende spunto da Zombi di Romero (per l'assedio nel supermarket, ma soprattutto per l'idea che chi viene morso resta contagiato e si trasforma in mostro) dall'altra sembra aver anticipato, dicevamo, situazioni che possiamo ritrovare nel cult di due anni successivo Rambo. In entrambi i film ci troviamo infatti di fronte a dei reduci di guerra del Vietnam, a degli emarginati, che dichiarano guerra alla società che li ha isolati. La teoria di una possibile ispirazione degli americani per questo film italiano è data anche dal fatto che Tomas Milian (il quale con Amati aveva girato sette anni prima Il consigliori di Alberto De Martino) aveva acquistato i diritti del libro di David Morrell First blood per una eventuale trasposizione cinematografica, poi gli americani giocano al rialzo e due anni dopo esce per l'appunto Rambo, trasposizione del romanzo di Morrell. Al di là di queste ipotesi Apocalypse domani resta un film godibile che tutto sommato non è invecchiato male. Sceneggia l'onnipresente Dardano Sacchetti insieme a José L. Martinez. Probabile che i due si siano divisi le scene, ad uno quelle action all'altro quelle horror. Margheriti si firma come d'abitudine Anthony M. Dawson per la distribuzione estera. Dopo la coregia di Il mostro è in tavola barone Frankenstein Apocalypse domani segna il suo ritorno al genere horror. La scena della morte di Radice con la voragine nello stomaco è passata alla storia del cinema splatter, merito del solito Giannetto De Rossi.
In controtendenza con il resto del paese (e forse del mondo. Addirittura? Addirittura) non aspetto l'8 marzo per omaggiare le donne a modo mio con questo montaggio di estratti da film horror (ma va?) rigorosamente italiani, rigorosamente d'antan (ma va?).
Lo so. Ne mancano tante.
Nei prossimi giorni si ritorna ai classici post scritti.
Se volete divertirvi elencando attrici e film fate pure
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Come dice anche il nostro Presidente l'ottimismo è importante. Ecco allora che con ottimismo segnaliamo l'uscita il 22 luglio del film At the end of the day, un thriller diretto da Cosimo Alemà, quarantenne romano che si è fatto le ossa nel mondo dei video clip e degli spot. At the end of the day è il suo debutto nel mondo del cinema. Il film dal trailer promette bene, se non altro una buona qualità tecnica. Incrociamo le dita e speriamo di non passare dall'illusione alla delusione.
Se ci pensiamo un attimo nella maggior parte dei film (commerciali e non solo) c'è sempre la regola drammaturgica che accosta elementi contrastanti tra loro. Fa parte della natura delle cose: gli stessi atomi hanno sia una carica positiva che una negativa. Si tratta quasi sempre di una coppia, anzi della coppia di protagonisti, pronti a farsi i dispetti, a litigare, ad essere in disaccordo su tutto, a incasinarsi la vita reciprocamente. È un canovaccio di cui si sono serviti per pellicole d'amore ma anche per horror. Racconta storie come quella di lui e lei che si fanno guerra ma poi scoprono di amarsi, ma anche dei due che si sfidano a distanza. I contrasti sono sempre costretti a stare insieme, sovente, per tornare al parralelo con la chimica, in un territorio neutrale, vuoi per motivi di lavoro, come in What women want, vuoi per un imprevisto come in Parto col folle (Due date). Peter (Robert Downey Jr.) e Ethan (Zach Galifianakis), un architetto pieno di regole e piuttosto nervoso e un aspirante attore fricchettone che vive e lascia vivere contando sulla fortuna. Insieme per forza attraversano gli Stati Uniti coast to coast diretti a Los Angeles (Peter per veder nascere il suo primo figlio, Ethan per un provino) affrontando la difficile convivenza (Ethan ha con sé anche un cane) e diverse situazioni. Ancora un viaggio dunque che per i protagonisti (soprattutto Peter) ha lo scopo di capire sé stessi e l'altro/gli altri, un'altra storia di formazione per dargli consapevolezza del loro ruolo/posto nel mondo. Seguendo la strada della commedia Parto col folle, per non contravvenire a nessuna regola, concede ai protagonisti anche i classici e seri momenti intimistici. Ideale per una serata senza troppe pretese. Dirige Todd Philips (quello dei due Week-end da leoni), sceneggiano Alan R. Cohen, Alan Freedland e Adam Sztykiel.
Quale strada si decide di percorrere per raccontare una storia è fondamentale per la buona riuscita di un film. L'ultimo dei templari imbocca la strada facile del mostrare tutto senza ricorrere granché nelle allusioni/suggestioni.
Nel film infatti si racconta di due cavalieri cristiani che accettano di accompagnare una ragazza accusata di stregoneria in monastero per farla processare. Cavalireri costretti perché disertori dopo aver aperto gli occhi sulla brutalità delle Guerre Sante, accompagnati da un prete e un ragazzino intraprendente, un monastero che conserva l'ultima copia rimasta di un libro che contiene esorcismi per tutte le occasioni, e una strega ingannatrice, autentica, e qui veniamo al punto cruciale, per niente pazza. Le accuse sono fondate, la chiesa ha ragione, non si tratta di pazzia né di stravaganza, la ragazza è una strega vera anzi è molto di più: un demone in CGI. Le pellicole in cui la stregoneria è sinonimo di pazzia sono poche in confronto con quelle di carattere soprannaturale, una fra tante -ne ho parlato qualche giorno fa- Maciste all'nferno di Riccardo Freda. Peccato perché il film parte pure bene con l'esecuzione delle tre streghe (una sola delle quali si rivela essere autentica) ma poi si perde strada facendo sempre di più proprio perché imbocca la strada asfaltata e telefonata. Non solo per quanto riguarda lo sviluppo della trama, anche il contorno fatto di boschi, candele che si spengono e riaccendono da sole, lupi e nebbie è quanto di più classico ci sia. Considerando che L'ultimo dei templari (Season of the witch) racconta tutto ciò proprio con un viaggio è tutto dire. Ma Dominic Sena deve pur mangiare.
Non esiste un altro blockbuster violento come Robocop, così pieno di morti esagerate, drammatiche nel caso di Murphy, la cui scena dell'uccisione era insostenibile già nella prima versione (ridotta) uscita nel 1987, ma anche divertenti se pensiamo a quella del poveraccio della multinazionale (poveraccio si fa per dire) crivellato dal robot animato in stop motion. Verhoeven trasferitosi ormai dall'Olanda negli Stati Uniti inizia da un po' di tempo ad interessarsi alla figura di Cristo e a frequentare il gruppo dei Jesus Seminar intento a verificare l'esistenza storica di Gesù. I suoi studi sull'argomento partoriscono una serie di script come Fully Human ma un film vero e proprio non lo realizzerà mai anche a causa dello scoraggiante insuccesso del film di Scorsese L'ultima passione di Cristo (1988). Verhoeven capisce l'antifona, su per giù in quel periodo sulla sua scrivania arriva il copione di Robocop di Edward Neumeier e Michael Miner. Inizia a leggerlo controvoglia, perché comunque già il titolo non lo convinceva, ma si ferma dopo poche pagine ritenendolo troppo stupido. Sua moglie gli fa notare che in fin dei conti la storia che racconta è una specie di versione moderna di Frankenstein. Sono particolari - di vita vissuta - come questi che spiegano in qualche modo l'amore del regista per i personaggi femminili. Ma questo è un discorso a parte che andrebbe approfondito in altra occasione. Verhoeven inizia a ragionarci su e a vederci anche altre analogie soprattutto legate alla figura di Cristo. Il regista è dell'idea, come dargli torto, che la religione cristiana si basa sulla violenza della crocifissione. Murphy (Peter Weller) come Cristo muore in modo atroce. Boddicker (Kurtwood Smith) gli fa saltare una mano con una fucilata (analogia con le stimmate) prima di lasciarlo ai suoi scagnozzi. Solo alla fine gli dà il colpo di grazia in testa (la corona di spine). Murphy muore ma viene fatto risorgere come cyborg. Diventa una specie di idolo delle folle (la tv lo aiuta), un poliziotto indistruttibile ed instancabile per il bene della violenta Detroit, viene smemorizzato, aiutato dalla compagna di pattuglia Lewis (Nancy Allen) che gli mette la pulce nell'orecchio ritrova se stesso, accetta in qualche modo il suo destino fino ad affrontare la sua nemesi camminando sulle acque, durante la lotta viene trafitto dal nemico con una spranga quasi a voler simboleggiare la lancia nel costato. Viene fatto risorgere dalla stessa multinazionale che lo ha ucciso, la OCP. Un'azienda che gestisce sia ufficialmente la polizia che la malavita, decisa a ricostruire letteralmente da capo Detroit anche per dare il via a un giro di soldi illegali come droga e altre cose di questo tipo. Un'azienda che ha nel suo consiglio di amministrazione gente senza nessuno scrupolo pronta a sbranare e sbranarsi. E se chi dovrebbe proteggerci in realtà ci uccide, ed evita di mordersi la coda con una legge ad personam, la Direttiva 4 che inibisce Robocop dall'arrestare i capoccia della OCP, allora significa che tutto va a rotoli, che ancora una volta buoni e cattivi bene e male vanno di pari passo e che prima o poi si applica la legge del taglione.
Lo abbiamo già detto: nel film Paul il personaggio di Ruth (interpretato dalla brava Kristen Wiig) è quello che più si trasforma.
Ruth prima di incontrare Paul aveva un occhio solo. La vita isolata con il padre fanatico religioso oltremodo aveva fatto il resto. Con un occhio solo e con quella vita il suo punto di vista non poteva che essere bidimensionale, limitato. Poi arriva Paul che compie una serie di atti che a noi tutti paiono miracolosi mentre per lui sono solo il risultato della sua evoluzione. Riporta in vita un uccello solo però per mangiarselo, ma soprattutto ridona la vista all'occhio morto di Ruth che così può vedere con profondità. Dal buio e piatto (perché bidimensionale) medioevo in cui viveva Ruth si arriva con l'Umanesimo di Paul alla scoperta della prospettiva (di una terza dimensione) che mette al centro di tutto non più Dio ma l'essere (umano).
In tal senso, dopo la guarigione di Ruth si potevano forse girare delle soggettive-sequenze in 3D. La butto lì.
Fare un buon mockumentary probabilmente è una delle cose più difficili di questo mondo. Il pretesto da cui partire (una troupe cialtrona di un programma tv sui fantasmi che passa la notte in un ex ospedale psichiatrico, un prete senza più fede che cura con falsi esorcismi persone fuori di testa) deve essere sviluppato bene altrimenti lo spettatore ride quando non dovrebbe o sbadiglia. ESP - Fenomeni paranormali (Grave encounters) e L'ultimo esorcismo (Cotton era il suo titolo di lavorazione, trasformato poi in The last exorcism) passano entrambi dalla rappresentazione della suggestione, vedi l'ombra fugace nei sotteranei dell'ospedale o le varie preparazioni dell'esorcista Cotton (Patrick Fabien) per ottenere effetti ad'hoc durante i rituali, all'orrore paranormale vero e proprio, cambiano solo due cose: i tempi e il modo. Da una parte i fantasmi, dall'altra una possessione diabolica, su entrambe le parti la non materia che si manifesta con le solite apparizioni, grida e rumori spaventosi, avvenimenti inspiegabili, oggetti che si spostano da soli, oppure con una ragazzina (Ashley Bell), qualcosa di più concreto, materico, reale, posseduta dalla pazzia (prima) e dal demonio (poi). ESP si concentra sull'ospedale, visto che la troupe vi si fa rinchiudere, e sulla sua architettura senza senso, aggiungendosi così a film come Gli invasati, L'orribile segreto del dottor Hichcock, Operazione paura. L'ultimo esorcismo cambia sempre location. Prima vediamo Cotton dare una ricetta ai suoi rincoglioniti fedeli (non so perché ma mi viene in mente una battuta di Nicolas Cage in Arizona Junior a proposito del bimbo che ha appena rapito: -Non capirebbe la differenza tra una bestemmia e un rosario), poi andiamo a casa della ragazzina, la sua camera da letto, fatto lì l'esorcismo placebo (perché Cotton pensa che si tratti di semplice follia) ci si sposta in un hotel, da lì si finisce in ospedale, poi si ritorna nella casa, e via dicendo. L'ultimo esorcismo cerca di creare un'atmosfera spaventosa in maniera graduale, ci fa affezionare al personaggio dell'esorcista con la fede vacillante e solo nel finale fa uscire fuori chiaramente l'aspetto paranormale. ESP invece non perde troppo tempo, va meno sul sottile, subito viene meno il dubbio che la paura sia frutto dell'autosuggestione e una volta che il gruppo televisivo si fa rinchiudere dentro la clinica passa poco tempo prima che inizino a vedersi le prime fluttuazioni, sparizioni, i fantasmi incazzati. Insomma, la differenza tra questi due mockumentary è sostanziale, ed è la prova, probabilmente, che il genere è ancora tutto da definire.
Pegg e Frost ormai un binomio che è garanzia di risate di una certa qualità, di nuovo insieme questa volta però senza il loro abituale regista Edgar Wright insieme al quale hanno partorito i gioiellini Spaced, Shaun of the dead e Hot Fuzz. Lasciano l'Inghilterra, la loro Londra, per andare in vacanza in America nei luoghi famosi agli appassionati di ufologia. Il loro tour inizia dal Comi-con, uno di quei posti dove i nerd come loro girano liberi tra i padiglioni indossando il costume del loro personaggio dei fumetti preferito. Sono due sfigati incapaci di non cacciarsi nei casini, di non attirare su di loro le attenzioni dei classici bifolchi da autogrill capaci solo di prendersela con i deboli. È la cultura britannica che incontra quella americana. Pegg e Frost, Graeme e Clive, amici inseparabili, l'illustratore* e lo scrittore, gli autori del fumetto fantasy con protagonista una tipa con tre tette**. Proprio loro incontrano Paul un extraterrestre sboccato fuggito dall'Area 51. I tre scappano dai MIB di turno verso un luogo imprecisato, durante il viaggio coinvolgono altri personaggi come Ruth (Kristen Wiig) una ragazza fissata con la religione cristiana e Tara (Blythe Danner) una signora che da bambina (Mia Stallard) aveva salvato Paul appena precipitato con la sua navicella spaziale. Trattandosi di un viaggio è chiaro che il tema principale è la conoscenza, la presa di coscienza di sé, la maturazione che è evoluzione. Tra tutti il personaggio che più sfacciatamente si trasforma è quello di Ruth che apre gli occhi e da bigotta si trasforma in una ragazza sfrenata. Merito di Paul e delle sue capacità extraterrene. Peccato che il padre sia ancora più fuori di testa di lei.
Con la scusa di trovarsi negli USA Pegg e Frost abbandonano lo stile brit e si concedono umorismi ancor più beceri (nel senso buono) del loro solito senza però scadere mai nel volgare neanche nella scena in cui Paul mimando situazioni gay interroga Clive sui suoi gusti sessuali. Il dubbio sulle sue inclinazioni rimane, come la sua gelosia, visto che l'amico del cuore Graeme inizia a flirtare con Ruth, come è anche vero che la sua ultima esperienza sessuale (dichiarata) è stata con una tipa vestita da scimmia.... Molte, ovviamente, le citazioni sci-fi soprattuttto ai film di Spielberg Incontri ravvicinati ed ET ed è proprio il regista dei due titoli di culto che sentiamo parlare, nella versione originale, con Paul a telefono. Sempre a proposito di voci, da noi quella di Paul è di Elio Degli Elii, nell'originale è di Seth Rogen, vecchio amico e collaboratore del regista del film Greg Mottola.
*: Simon Pegg aveva interpretato un illustratore già in Spaced.
**: ricordate la prostituta su Marte in Atto di forza? E poi quattro tette... che schifo...
Faccio zapping per vedere se l'audio di uscita della tv dove lavoro è uguale a quello degli altri canali. Canale 5 sta trasmettendo una cosa, come dire?, una cosa. Una miniserie. C'è Enrico Brignano che fa un poliziotto e un bambino che fa suo fratello.
Al ragazzino hanno appena fatto uno scherzo. È l'unico mascherato ad una festa a casa di una bambina di cui è innamorato. Lui si offende e si chiude in bagno. La ragazzina preoccupata chiama Brignano, impegnato nelle indagini su non so che. Giunto a casa della bimba minaccia tutti i giovani di sbatterli al gabbio e dice loro che non è giusto prendersela in tanti contro uno solo. Poi va verso il bagno, da lì il bambino esce come se niente fosse e fa al fratello sbirro -Ho auto un'idea per l'indagine-.
La mente mi va subito a un episodio di Boris, ad una scena in cui René e Alfredo ricordano i bei tempi della monnezza che fu. Una di queste chicche da loro realizzate in passato era una serie incentrata su un vecchietto detective che si faceva aiutare nelle indagini dal nipotino, o era un cane? E 'sti cazzi direbbe uno dei due di sopra, ma anche un certo Enzo G. Cambia poco cane o nipote. Fratelli detective dimostra che quelli di Boris soto attenti osservatori.
Il mio debole per Enzo G. Castellari credo che piano piano cominci ad emergere. Il suo cinema è sempre stato cannibalico, come tutto il cinema popolare italiano di quel periodo. Se un film americano aveva particolarmente successo, ecco che subito da noi doveva uscire un clone. Clone per modo di dire perché dove non arrivava il budget ci pensava l'inventiva di artisti come lui. In quegli anni Walter Hill usciva con I guerrieri della notte mentre Daniel Petrie dirige Paul Newman in Bronx 41 distretto di polizia. Dardano Sacchetti e la compagna Elisa Briganti colgono al volo la palla e scrivono 1990: i guerrieri del Bronx. Per Castellari si ripresenta un'altra occasione per girare ed ambientare un film nei mitici e tanto amati/copiati States.
Questa la trama: Ann, una ragazza figlia di un industriale delle armi (Stefania Girolami, figlia del regista) scappa da Manhattan nel Bronx (quartiere isolato pericolosissimo) perché non ne può più di quella sua vita in cui morale ed etica non esistono se non in maniera distorta. Appena giunta nel quartiere, covo di numerose bande, viene salvata dal gruppo dei bikers dall'aggressione degli skaters. Sulle sue tracce si mette subito (per conto della famiglia della ragazza) Hammer un cacciatore di taglie psicopatico come pochi, l'unico in grado di entrare e di uscire dal quartiere, uno stronzone a cui piace giocare sporco mettendo contro le varie bande con false prove e cose simili.
Ann comunque non si pentirà mai della sua scelta, scoprirà che c'è più lealtà nel suo nuovo quartieraccio che nella vecchia e bella Manhattan. Per amore del suo salvatore, Trash, il capobanda dei motociclisti, sarà tentata di consegnarsi a suo padre prima che il folle Hammer scateni l'inferno. Poi sempre per amore, chiaramente, resterà perché comunque, ripetiamo, per lei il Bronx è meglio di Manhattan.
Nel Bronx non ci sono molte regole, per esempio: ogni banda deve restare dentro un territorio ben definito. Se un componente di una banda entra nel territorio di un'altra, generalmente muore. E la cosa funziona, perché in linea di massima ognuno si fa i cazzi suoi nel suo territorio. Però c'è banda e banda. Mentre I bikers di Trash (Mark Gregory vale a dire Marco Di Gregorio) sono i buoni (con svastiche ed altri simboli nazisti nel loro abbigliamento) che uccidono solo se costretti, gli skiters di Golan (George Eastman alias Luigi Montefiori) hanno sete di potere e uccidono per diletto. Il capo di tutti, il capo dei capi, è Ogre (Fred Williamson), un figlio di puttana con i figli di puttana, leale con i leali, che però non lo diresti alla prima impressione. Dentro e fuori dal quartiere del titolo, dove i poliziotti entrano solo perché mandati in punizione dai superiori, scorrazza indisturbato un bastardo disturbato, esaltato, sadico e senza sentimenti positivi, un martello (Vic Morrow) al soldo di quelli di Manhattan che ha come spalla il succube Hot Dog (Christopher Connelly). Hammer è la riprova che Ann ha ragione, che il marcio si trova più ai vertici della società che non nel marciume dei bassifondi.
A sentire il regista Neill Blomkamp District 9 non è un film politico. Tutte cazzate, o meglio, tutto vero ma fino a un certo punto. District 9 sarà anche un film di intrattenimento (produce Peter Jackson) ma l'aspetto politico c'è, eccome se c'è. A Johannesburg una ventina di anni arrivava una navicella carica di alieni denutriti. Visto che non c'era posto in città vengono messi tutti in un quartiere vietato agli umani, il District 9. Dopo venti anni di convivenza difficile i gamberoni vengono presi con la forza e portati in un altro posto, esattamente come accadde nel 1982 proprio a Johannesburg quando l'apartheid separava i neri dai bianchi. A gestire lo sfratto di quasi due milioni di extraterrestri, per conto della fabbrica di armi MNU, Wikus, un tipo ambizioso sposato con la figlia di un pezzo grosso della multinazionale. Nel suo percorso formativo, perchè di questo si tratta, Wikus, che all'inizio fa morire uova di alieno pensando che sia giusto, imparerà che cosa significa essere straniero in terra straniera, si immedesimerà nell'altro, nel diverso, cambierà atteggiemento nei confronti degli alieni, conoscerà il sentimento dell'empatia. Certo, lo farà per tutta una serie di circostanze sfortunate, ma si sa che a volte il destino prevede un aspetto drammatico se non addirittura tragico. La sua trasformazione mentale, il cambiamento del suo pensiero nei confronti dell'altro, sarà parallela (o) conseguenza della sua trasformazione fisica. Una mutazione fisica ambivalente, metaforica, che richiama alla mente quelle di Cronenberg e di Tsukamoto. Wikus passa dall'altra parte un po' per necessità, un po' per presa di coscienza. Un po' perché un film di cassatta è questo che deve fare, un po' perché è il messaggio politico che lo richiede. In questo equilibrio, che poi non è un vero e proprio equilibrio, in questa miscela oserei dire perfetta, serietà e cazzate, messaggi e intrattenimento, non si calpestano i piedi.
Rodriguez è un regista dalle aspirazioni pop come pochi altri. Prolifico il giusto, citazionista, cazzone, non troppo raffinato nelle sue realizzazioni, nei suoi eccessi, uno che non ama i giri di parole o le mezze misure.
Machete, lo sanno tutti, nasce da un fake trailer contenuto in Planet Terror ed è la storia di una vendetta, di razzismo e immigrazione, di una rivoluzione, di un mondo in cui Machete è il personaggio buono che si fa giustizia sparando ma soprattutto affettando tutti quelli che gli si mettono contro. Più volte sul punto di finire sconfitto, dimostra tenacia, sette vite come i gatti, una determinazione che lo ha trasformato in una leggenda vivente che fa bagnare moltissimo le donne che incontra, sicuramente anche aiutato dalla faccia rugosa, truce e impassibile di Danny Trejo. L'universo di Robert Rodriguez non ha basi razionalistiche, accade tutto l'impossibile (pensiamo alla mitragliatrice di Cherry in Planet Terror che spara senza essere toccata) purché piaccia al suo gusto un po' tamarro (in questa occasione in particolare). In Machete gli eccessi vengono fuori tutti, vomiti compresi. La leggenda del protagonista, la sua vendetta, incrocerà quella del gruppo La rete che aiuta immigrati clandestini messicani a farsi una nuova vita negli USA. In Machete c'è in qualche modo un'impronta religioso-cristiana: il fratello prete che viene crocifisso in chiesa, la legge del taglione che ricade sul senatore xenofobo De Niro, la Lohan vestita da suora, però sono buttate lì senza voler fare una pippa morale cristiano-cattolica o una denuncia sociale ma solo per divertire o a limite turbare qualche credente fessacchiotto. Il sangue, le amputazioni, sono tutte esagerate ma non scendono mai nel dettaglio del taglio (scusate...), realizzate più con l'ausilio della GCI che del vecchio makeup protesico. Machete (co-diretto da Ethan Maniquis, collaboratore di Rodriguez da un po' di anni) è un gioco divertente perché palesemente innocuo e finto, realizzato con uno stile da b-movie sbrigativo d'altri tempi, molto genuino e molto furbastro.
Quando Josè Saramago pubblicò il suo Vangelo secondo Gesù Cristo fu uno scandalo perché il Gesù lì descritto era molto umano, pure troppo per i gusti della chiesa portoghese. Conseguenze: lo scrittore viene attaccato duramente, scappa dal Portogallo e si ritira nelle Isole Canarie a Lanzarote. Il primo romanzo che scrive nella sua nuova casa è Cecità, una vera e propria risposta a tutte le polemiche che il suo Gesù aveva suscitato.
Moretti probabilmente non pensava al Cristo di Saramago mentre scriveva/girava il suo Habemus Papam, anche perché la scelta finale dei due protagonisti è ben diversa, però entrambi gli autori hanno lo stesso approccio laico su dei temi religiosi fondamentali. E si sà come finisce in questi casi. Non si può scindere l'umano dal divino. La chiesa può parlare di tutto ma nessuno può parlare di lei. Frecciatina polemica (e retoricamente gratuita) a parte, che sia stato questo a suscitare polemiche anche per il film di Moretti? Gli è stato forse rimproverato, cioè, che pensare a un Papà così umano sia quanto meno irrispettoso? Un Papa che sclera, che piange, che scappa, che si caga addosso dalla paura si può rappresentare? Un altro gran rifiuto si può raccontare? Si che si può. Quello che ha dato fastidio nel nostro benpensante Paese è la scena in cui si organizza un torneo di pallavolo tra cardinali aspettando che sua santità si decida.
C'è qualcuno che non ha capito un ciufolo. Nanni Moretti come al solito abbraccia più argomenti di quanti non si direbbe, argomenti che basterebbe guardare il film per scoprirli, ma nel nostro Paese di tuttologi (senza h per forza) è fondamentale non conoscere un argomento per parlarne pubblicamente e avere pure un certo seguito di sostenitori ciechi.
Nel 1650, in un paesino scozzese, per salvare una poveretta (Vira Silenti) condannata al rogo per essere discendente (e porta pure lo stesso nome! Marta Gunt) di una strega bruciata cento anni prima (Hélène Chanel) arriva niente di meno che Maciste (Kirk Morris). Mentre la giovane resta imprigionata in attesa del giudizio, l'eroe si cala attraverso una voragine che dà direttamente all'inferno. Lì sotto dopo numerose prove da superare, di forza e di astuzia, e incontri particolari, incontrerà la strega rancorosa insieme al giudice (Andrea Bosic) che la condannò per aver respinto i suoi corteggiamenti.
Diciamolo pure, Riccardo Freda ha diretto film migliori di questo Maciste all'inferno. Eppure qualcosa da salvare c'è come la sequenza in camera da letto dei due sposi appena giunti nel castello maledetto che hanno ereditato. La voce di Charley (Angelo Zanolli) udita distante da Marta pur essendo i due a pochi centimetri l'uno dall'altra. Subito dopo la risata diabolica della vecchia strega che solo la giovane sente, poi le candele si spengono e il camino si accende da solo. Tutto questo mentre la folla inferocita del villaggio, con le classiche forche, fa irruzione nel castello. Un pezzo niente male. È qui che arriva Maciste. Arriva così perché deve arrivare, sempre in extremis, perché solo lui può risolvere questo problema. Spunta dal nulla, aggiusta le cose in zona Cesarini e nel finale sparisce di nuovo nonostante l'invito del villaggio rinsavito a restare lì, perché lui deve girare il mondo per proteggere i deboli.
Due momenti che racchiudono il meglio e il peggio del film: l'accuratezza e l'approssimazione. Da una parte l'azzeccata location naturale delle grotte di Castellana per le scene infernali, dall'altra una non riuscita miscela tra mitologia a cristianità. Cosa voglio dire con questo? Non so. Provo però ad immaginare al posto di Maciste che ne so, Gesù Cristo. Vuoi mettere l'impatto! Nel senso, penso io, che c'azzecca Maciste con l'inferno? Forse c'è un nesso ma io non è che l'abbia capito. Sì che le religioni, i miti, le favole, hanno tutti un comune denominatore che potremmo chiamare narrazione. Nel senso che tutte raccontano in fondo la stessa storia, e questo accade da quando l'uomo ha iniziato a ragionare. Però non mi sembra che questo discorso ci sia nel film, o meglio, c'è ma solo in superficie. Forse mi sbaglio. Troppi dubbi miei. Non mi ha proprio convinto.
Sempre uguale a se stessa, fedele alla sua linea, Boris, la serie tv italiana più irriverente degli ultimi anni, probabilmente di sempre, approda sui grandi schermi dopo tre stagioni sul piccolo. La troupe è sempre la stessa, ancora ambizioni alte per René Ferretti deciso ad uscire dal trash delle produzioni girate a cazzo di cane. Ma il copione (della vita) come è facile immaginare è sempre lo stesso e ben presto l'adattamento de La Casta, il libro inchiesta-denuncia scritto da Rizzo e Stella, si trasformerà in qualcosa d'altro, contaminato ancora di più dallo spirito del nostro Bel Paese. Ancora una volta il cerchio si chiude, tutto ritorna esattamente com'era prima, niente cambia perché niente può e deve cambiare. Boris scherzando e ridendo ci ha azzeccato anche questa volta, adesso deve solo sparire, uscire di scena, perché con questo film è come se i tre autori Giacomo Ciarrapico, Mattia Torre e Luca Vendruscolo avessero riassunto e concluso degnamente il discorso cardine, di cui si parlava sopra, sviluppato nell'arco delle tre stagioni televisive. Ripeterlo ancora sarebbe superfluo.
C'è un senso di opprimenza in Profondo rosso che non lascia scampo.
Quel pupazzo però è il superamento di una soglia, la fusione del prevedibile con l'imprevisto, l'impensabile che diventa realtà, l'imprevisto nel previsto, lo stravolgimento delle consapevolezze, e il personale ingresso di Dario Argento nel folle mondo dell'irrazionale.