Verrà un giorno View RSS

"Habrá un día en que todos al levantar la vista, veremos una tierra que ponga libertad" - CANTO A LA LIBERTAD - José Antonio Labordeta
Hide details



Era mio nonno 24 Jul 2010 4:48 PM (15 years ago)


Ti ho sognato, l’altra notte. Se non mi sbaglio, credo sia la prima volta che mi capita. Eri seduto sul tuo lettino d’ospedale, bianco. Tu, col tuo camice bianco. Nonostante l’ictus che ti aveva colpito qualche giorno prima e che ti aveva lasciato semiparalizzato, eri seduto e cercavi pure di parlare. Ma, per quanto ti sforzassi, dalla tua bocca, immobile, usciva solo un borbottio indistinto. Ne eri seccato, maledettamente seccato. E io credo, a un certo punto, di aver persino intuito quello che volevi dirmi. Ma ora, purtroppo, non me lo ricordo. Ricordo solo, nel sogno, di essermi voltato e di aver scambiato un cenno d’intesa con mio fratello, che stava in piedi, dietro di te, sorridente, nel giorno del suo compleanno: Vedi, il nonno si sta riprendendo.

Ora che sei morto, provo a buttare giù queste due righe. Ti sembrerà egoista, ma lo faccio più per me, che per te. Per alleviare, se possibile, questo dolore che ancora non so come sfogare. Che è cresciuto, in questi dieci giorni di agonia, più acuto e più irreale, per qualcosa che, prima o poi (dentro di me lo sapevo) doveva succedere, ma che non poteva succedere, ora. Almeno non così. Sarà la distanza, sarà l’oceano che c’è di mezzo, ma a me ancora non sembra vero. E se anche la mente tenta di convincermi che è finita, io proprio non riesco ad immaginarti, morto.

Tu sei quello che, dopo esserti ripreso da un primo, lieve ictus, avvisaglia di quello fatale che ti avrebbe colpito solo un paio di giorni dopo, al telefono, ancora confuso, chiedevi a me come stavo. A me. Tu che eri appena uscito dall’ospedale chiedevi a me come stavo. Quelle sono state le ultime parole che abbiamo scambiato. E io non sono nemmeno riuscito a chiedere a te, come stavi. Perché l’unica cosa che pareva ti importasse sapere era: Federico, come stai?

Quando ripenso a questi ultimi momenti, non so perché, mi torna alla mente, chiara, un’immagine che mi è rimasta impressa da tempo, che ho letto per la prima volta in un libro a me particolarmente caro. Sono andato a recuperarla. Fa così:“A me m'ha sempre colpito questa faccenda dei quadri. Stanno su per anni, poi senza che accada nulla, ma nulla dico, fran, giù, cadono. Stanno lì attaccati al chiodo, nessuno gli fa niente, ma loro a un certo punto, fran, cadono giù, come sassi. Nel silenzio più assoluto, con tutto immobile intorno, non una mosca che vola, e loro, fran. Non c'é una ragione. Perché proprio in quell'istante? Non si sa. Fran. (...) Non si capisce. E' una di quelle cose che è meglio che non ci pensi, se no ci esci matto”. Ecco, tu eri proprio come uno di quei quadri, antichi, appesi al loro posto, sempre là. E potevano passare stagioni, potevano cambiare proprietari, poteva essere ristrutturata tutta la casa da cima a fondo, ma alla fine ti si ritrovava sempre appeso, lì, alla tua parete. E nessuno si sarebbe mai potuto immaginare la casa senza quel quadro. Era una cosa semplicemente inconcepibile. Ma ora, all’improvviso, mi sei crollato. Fran. E io mi ritrovo qui a guardarmi attorno, a cercare di mettere assieme i pezzi per dar senso ad una cosa che, di senso, ne ha veramente poco.

Sei andato a morire lontano da casa, ironia della sorte, il primo giorno di vacanza al mare. Un posto che ti piaceva particolarmente. Dove, esattamente quattro anni fa, abbiamo visto insieme, davanti ad un maxischermo, l’Italia schiantare la Germania 2-0 e qualificarsi per la finale che ne avrebbe segnato il trionfo. Proprio come nel lontano ’82, quando, mi raccontavi sempre, tenendomi in braccio, mi indicavi un piccolo televisore in bianco e nero, e io che avevo due anni, insieme a te, gridavo Goooal ai gol di Paolo Rossi. Sei andato a morire lontano da casa, lontano dalla tua amata Monza, ironia della sorte, come se non volessi che la tua città ti vedesse in quelle condizioni. Sei andato a morire al mare, a Venezia, la città dei tuoi genitori, piena di ricordi d’infanzia. E forse è giusto così. Venezia. Quando sentivi quel nome, ti si illuminavano gli occhi, e sempre, tutte le volte, mi raccontavi dei tuoi cugini, che dal balcone della loro casa nel sestiere di Cannaregio giocavano a tuffarsi direttamente in acqua dal secondo piano.

Quando me ne sono andato a dicembre, ti ho regalato un libro, con dentro una piccola dedica che diceva: Buon Natale, nonno, ci vediamo ad agosto, vedrai che otto mesi passano in fretta. Purtroppo mi sbagliavo. Otto mesi sono passati, ma non in fretta abbastanza. Mi hai fregato sul filo di lana, quando ormai avevo già pronte le valigie per venirti a trovare. So perfettamente quanto fossi affezionato a me e non riesco ad immaginare la tristezza che hai provato quel giorno che mi hai visto andar via. Anche se non l’hai mai fatta trapelare, nemmeno per un attimo. Hai voluto che ti svegliassi nel cuore della notte, quella notte, per potermi salutare un’ultima volta, prima che mi recassi all’aeroporto. E ogni volta che parlavamo su Skype, mi aggiornavi sul numero di giorni che mancavano al mio ritorno. Stavi facendo il countdown, mi dicevi. Ma il countdown si è interrotto sul più bello, improvvisamente, senza una ragione.

Perché davvero tu eri una delle persone più dolci e più buone che io abbia conosciuto in vita mia. E ora posso dirlo seriamente, senza retorica. Ferocemente attaccato alla vita, riuscivi sempre a scorgere il lato positivo delle cose. La tua era una tattica disarmante nella sua semplicità: vedrai che la prossima volta andrà meglio, mi dicevi. Era questa la tua filosofia di vita. Un ottimismo mai eccessivo, anzi testardamente ricercato. E avevi ragione tu. Una straordinaria forza d’animo che ti ha fatto sopravvivere, incredibilmente, per altri quattordici anni da quel giorno maledetto in cui hai perso la persona a te più cara. Quel giorno se ne era andata metà della tua vita, ma con la restante metà, nonno, sei riuscito a fare miracoli.

Ora che faccio così fatica a rimettere a posto le idee, mi si sovrappongono, impazzite, le diapositive di trent’anni passati insieme. Non so perché, ma ti vedo, settantenne, intento a giocare a calcio inseme a me e mio fratello nella cameretta, troppo piccola per non combinare danni con una pallonata maldestra. Ti vedo, ottantenne, correre (sì, correre) in un prato dinanzi alla Mole Antonelliana, a rincorrere non mi ricordo più che cosa. Ti vedo seduto in macchina, nella mitica Talbot rossa, ad aspettarmi all’uscita da scuola, subito dopo il passaggio a livello, quando ancora non avevano costruito il sottopassaggio, per farmi risparmiare dieci minuti di strada a piedi con lo zaino pesante. Ti vedo, curvo sul balcone della casa di Calimero, a raccogliere un piccolo merlo, caduto, con l’ala spezzata: chissà perché, l’avevamo chiamato Luigino. Ti vedo, novantenne, passeggiare, ingobbito ma sicuro, tra i pini di Milano Marittima con il Corriere e la Gazzetta in mano. Ti vedo seduto a un tavolo del Big Bar, anzi no, del Vip, come lo chiamavi tu, con cappuccino e brioche. Perchè non c’è niente di meglio al mondo del rito del caffè, da consumare “sedente, bollente e per neinte”. Ti vedo imprecare contro la vecchia Ford verde, quella che usavi per portarmi all’asilo, ferma, senz’acqua, in salita, sotto il sole cocente dei sentieri manzoniani della Val Sassina. Ti vedo, lo scorso anno, toccare la coda del leone di Barzio, perchè se gli tocchi la coda significa che ci tornerai un’altra volta. Ti vedo, novantaquattrenne, festeggiare il tuo compleanno, davanti ad una tavolata enorme, mostrando, come regalo, una maglietta dell’Inter con su scritto: Nino. Tu che dell’Inter, in fin dei conti, non te ne è mai fregato nulla, che la tifavi solo perché la tifiamo io e mio fratello. Che il tuo vero amore è sempre stato il Monza. Quel Monza che mai, mai una volta nella vita, ti ha regalato l’emozione di venire in serie A.

Perdonami, ma è così che ti ricorderò. Perché agli occhi di un bambino, i nonni sono quei personaggi mitologici, che nascono vecchi e muoiono vecchissimi. E tu, vecchissimo lo eri. Novantasei anni suonati, quasi novantasette. Ma solo all’anagrafe. Perchè, con la tua salute straripante e la tua lucidità, facevi invidia a tutti. E te la ridevi sotto i baffi quando i dottori, guardando impressionati i tuoi esami del sangue, ti dicevano che avevi tutti i valori in regola, molto meglio di un ragazzino, e ti stringevano la mano e le infermiere ti facevano i complimenti. E allora novantacinque, novantasei, novantasette. Che differenza poteva fare un anno in più o un anno in meno? Certo, il tempo ti aveva incurvato, ti aveva rallentato il passo, ma la mente, quella no. Quella era rimasta intatta, precisa, meticolosa. Mai ho visto una persona della tua età ragionare in modo così attento e profondo. E io lo so che, proprio per questo, ci prendevi gusto, molte volte, a fare il finto tonto. A far finta di non aver capito. A storpiare gli accenti delle parole (ah, quanto ti piaceva!) perché, se non esiste una regola, allora ognuno può scegliere di mettere l’accento dove gli pare. Con quel bonario sadismo che si può permettere solo chi ormai vive la vita in modo disinteressato, e che fa ammattire chi è troppo indaffarato a vivere per capire veramente di stare vivendo.

Allora, già che ci sono, per quanto vale, voglio chiederti scusa. Scusa per tutte quelle volte che, dentro di me, perdevo la pazienza. Ora capisco, anche se forse è troppo tardi, che tu avevi ragione, e io torto marcio.

E sono sicuro che, in questi interminabili dieci giorni di agonia, tu abbia fatto lo stesso, intraprendendo un balletto terribile con la Morte. Me la immagino, Lei che ti chiamava, che ti trascinava e tu che ti defilavi, fischiettavi, guardavi dall’altra parte e facevi finta di niente: chi? Io? Poi, alla fine, ovviamente, ha vinto Lei. Ma gliel’hai fatta sudare, nonno.

E allora io ti prego, Signore, prendilo tra le tue braccia, ma fallo delicatamente, perché è molto fragile, non vorrei che si rompesse. E poi dagli coraggio, perché chissà quanto è spaventato: volare in cielo, pensa un po’, lui, fifone com’era, che non ha mai voluto mettere piede su un aereo in vita sua. E riservagli, ti prego, un posticino, accanto a nonna Sandra. Finalmente la incontrerà di nuovo, e sarà la persona più felice del mondo. Di questo sono sicuro: da oggi ho un Angelo in più in Paradiso su cui contare.

Solo una cosa ancora, Signore: spero me la concederai. Dopo tutto non mi sembra una richiesta tanto azzardata. Il giorno che il Monza, perchè prima o poi dovrà succedere, verrà in serie A, ti chiedo di poter fare un strappo alla regola. Concedigli un giorno di permesso, ed io e lui, insieme, ci metteremo a tifare come ossessi dalla curva del Brianteo. E io lo so, sarò la persona più felice del mondo.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

De Donno: La trattativa fu gestita da lobby economico-politiche 14 Jun 2010 7:39 PM (15 years ago)

Sembrano essere passate del tutto inosservate le dichiarazioni rilasciate qualche giorno fa dall’ex capitano del ROS Giuseppe De Donno, che, per la prima volta, in esclusiva, ha deciso di apparire in televisione e raccontare la sua verità sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. E’ successo durante la trasmissione “Complotti”, diretta da Giuseppe Cruciani e andata in onda l’8 giugno su La7 poco prima di mezzanotte. Un’ora intensa di testimonianze appassionate e ricostruzioni dettagliate, direttamente dalle parole di testimoni d’eccezione. Tra questi, appunto, l’ex capitano De Donno, braccio destro dell’allora colonnello Mario Mori, recentemente indicato da Massimo Ciancimino come uomo chiave della trattativa che avrebbe visto protagonisti da un lato i Carabinieri del ROS e dall’altro l’ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino. Don Vito, ha raccontato in aula il figlio Massimo, avrebbe rappresentato (a cavallo tra la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio fino al suo arresto avvenuto a fine dicembre ’92) gli interessi dei capi corleonesi di Cosa Nostra, Salvatore Riina prima e Bernardo Provenzano poi. Sul piatto, Riina avrebbe messo la revisione del maxiprocesso, la revoca del carcere duro e della confisca dei beni per i mafiosi (più tutta una serie di altre richieste secondarie stilate nel famoso papello) in cambio della cessazione della strategia stragista.

Massimo Ciancimino ha raccontato che gli incontri tra suo padre e il capitano De Donno iniziarono una decina di giorni dopo Capaci e proseguirono, in successione, sia prima che dopo Via D’Amelio. Cosa racconta De Donno in proposito? Esattamente quello che ha raccontato Massimo Ciancimino, né più né meno.


Ascoltiamolo: “Subito dopo la strage di Capaci (l’omicidio del dottor Falcone) io incontro Massimo (Ciancimino, nda) in aereo e gli chiedo di poter avere un contatto con suo padre per poter ottenere delle indicazioni utili alla nostre attività di contrasto a Cosa Nostra e Massimo mi dice che avrebbe rappresentato al padre questa mia richiesta e che mi avrebbe fatto sapere. Da lì poi nacque il rapporto con Vito Calogero Ciancimino.”



Strano, perché i primi a definire questi contatti con il termine di “trattativa” erano stati proprio Mori e De Donno, durante la loro deposizione nel processo per la strage dei Georgofili. Raccontando i propri incontri con Vito Ciancimino dinanzi alla Corte d’Assise di Firenze, il 27 gennaio 1998 Mori aveva rivelato: “Allora, (Ciancimino, nda) dice: 'Io ho preso contatto, tramite intermediario (dr. Antonino Cinà, nda), con questi signori qua (i Corleonesi, nda), ma loro sono scettici perché voi che volete, che rappresentate?' Noi non rappresentavamo nulla, se non gli ufficiali di Polizia Giudiziaria che eravamo, che cercavano di arrivare alla cattura di qualche latitante, come minimo. Ma certo non gli potevo dire che rappresentavo solo me stesso... Allora gli dissi: 'Lei non si preoccupi, lei vada avanti'. Lui capì a modo suo, fece finta di capire e comunque andò avanti. E restammo d'accordo che volevamo sviluppare questa trattativa.” E ancora: “Ciancimino mi disse: ‘Guardi, quelli accettano la trattativa, le precondizioni sono che l'intermediario sono io, Ciancimino, e che la trattativa si svolga all'estero. Voi che offrite in cambio?’ Io risposi: ‘Beh, noi offriamo questo. I vari Riina, Provenzano e soci si costituiscono e lo Stato tratterà bene loro e le loro famiglie’.” E infine: “Io pensavo, e ritengo di averlo espresso questo concetto, che Ciancimino avrebbe tirato alla lunga questa trattativa per vedere in effetti noi che cosa gli potevamo offrire come persona, non come soggetto inserito in una organizzazione.


Dello stesso tenore, ed anzi perfino più esplicite, erano state, allora, le dichiarazioni di De Donno: “Gli proponemmo (a Ciancimino, nda) di farsi tramite, per nostro conto, di una presa di contatto con gli esponenti dell'organizzazione mafiosa di Cosa nostra al fine di trovare un punto di incontro, un punto di dialogo finalizzato alla immediata cessazione di quest'attività di contrasto netto, stragista nei confronti dello Stato. E Ciancimino accettò. (...) Gli facemmo intendere che noi, nella trattativa, eravamo lì in veste di rappresentanti dello Stato”.

Oggi invece De Donno appare in televisione mantenendo un profilo decisamente più basso e negando in modo assoluto l’esistenza di trattative segrete: “Non esisteva nessuna trattativa. Lui (Ciancimino, nda) potrebbe aver compreso che il nostro fine ultimo era una discussione con Cosa Nostra che, ribadisco, non era assolutamente mai stata presa in considerazione come obiettivo del nostro lavoro. Gli chiediamo che i capi di Cosa Nostra si consegnino alla giustizia ottenendo in cambio un trattamento equo nei processi e un buon trattamento per le famiglie. Quindi gli chiediamo sostanzialmente una resa di Cosa Nostra allo Stato.”


Guai dunque a chiamarla trattativa. Era semmai una richiesta perentoria di resa totale di Cosa Nostra. Richiesta che, tra l’altro, appare alquanto audace e lascia non pochi dubbi e perplessità. Come poteva uno Stato, che in quel periodo era “in ginocchio”, secondo la definizione dello stesso Mori, presentarsi dai capi di Cosa Nostra in una posizione di forza chiedendone addirittura la consegna incondizionata? Perchè mai Cosa Nostra, nel suo periodo di massima potenza militare, avrebbe dovuto accettare una proposta simile in cambio, sostanzialmente, di nulla? Che senso aveva una richiesta del genere?


Sono dubbi sollevati anche dalla corte di assise di Firenze nel processo per la strage di via dei Georgofili: "Allo stato, infatti, non v’è nulla che faccia supporre come non veritiere le dichiarazioni dei due testi qualificati sopra menzionati (il gen. Mori ed il col. De Donno, ndr), salvo alcuni contraddizioni logiche ravvisabili nel loro racconto (non si comprende, infatti, come sia potuto accadere che lo Stato, “in ginocchio” nel 1992 - secondo le parole del gen. Mori - si sia potuto presentare a “cosa nostra” per chiederne la resa; non si comprende come Ciancimino, controparte in una trattativa fino al 18-10-92, si sia trasformato, dopo pochi giorni, in confidente dei Carabinieri; non si comprende come il gen. Mori e il cap. De Donno siano rimasti sorpresi per una richiesta di “Show down”, giunta, a quanto appare logico ritenere, addirittura in ritardo" (motivazioni sentenza di primo grado del processo per la strage di via dei Georgofili a Firenze, 6 giugno 1998).

Ma la prudenza di De Donno nel merito non può stupire più di tanto. Sia lui che Mori, a seguito delle rivelazioni di Massimo Ciancimino, sono stati da poco iscritti nel registro degli indagati dalla Procura della Repubblica di Palermo con l’accusa di violenza o minaccia a un corpo politico amministrativo. E’ chiaro che a questo punto le parole diventano pesanti come macigni. E per questo, De Donno non retrocede di un millimetro dalla versione ufficiale: l’entrata in scena di Mori sarebbe successiva alla strage di Via D’Amelio. Per la precisione, il pomeriggio del 5 agosto 1992. Spiega l’ex capitano del ROS: “La strage di Via D’Amelio produce in Vito Calogero Ciancimino la decisione di passare a vie di fatto, cioè di iniziare a collaborare seriamente con noi. Quando io colsi che lui aveva questa sensazione alzai il tiro e introdussi il colonnello Mori. Il primo incontro tra Vito Calogero Ciancimino, il colonnello Mori e me avviene il 5 agosto del ’92, poi quello successivo, a cui partecipa il colonnello Mori, è a fine agosto ’92 e di lì in successione fino ad ottobre.”


Tralasciando il fatto che il nesso tra la strage di Via D’Amelio e l’intenzione di collaborare da parte di Ciancimino non appare del tutto chiaro, la partita, ormai, da tempo si gioca quasi esclusivamente su questa data, 5 agosto 1992, sedici giorni dopo la strage di Via D’Amelio. Massimo Ciancimino ha invece dichiarato che Mori avrebbe partecipato fin da subito agli incontri con suo padre. “Almeno due o tre volte” prima del 19 luglio 1992. La cosa non è di poco conto. E’ chiaro che, nella ricostruzione degli avvenimenti, far intervenire Mori dopo la strage di Via D’Amelio ha un significato ben preciso: significa derubricare i primi contatti tra De Donno e Ciancimino a semplici abboccamenti, a tentativi di dialogo, nulla più. Significa quindi allontanare dalle spalle degli ufficiali del ROS quel gravoso fardello di un’iniziativa, l’avvio di una “trattativa”, che è stata indicata dalla sentenza BORSELLINO BIS come una delle cause esterne a Cosa Nostra dalle cui dipese la brusca accelerazione della fase esecutiva della strage di via D’Amelio: "Al di là delle buone intenzioni dei carabinieri che vi hanno preso parte, chi decise la strage dovette porsi il problema del significato da attribuire a quella mossa di rappresentanti dello Stato; il significato che vi venne attribuito, nella complessa partita che si era avviata, fu che il gioco al rialzo poteva essere pagante" (motivazioni sentenza d’appello BORSELLINO BIS sulla strage di via D’Amelio, 18 marzo 2002). Ecco perché, nonostante Massimo Ciancimino abbia testimoniato in senso assolutamente contrario, raccontando che anzi il padre si sentiva moralmente responsabile della morte del giudice (“Con questa gente non si doveva trattare”), le dichiarazioni di De Donno non possono stupire, perché in linea con la tesi difensiva da sempre strenuamente sostenuta.


Ciò che lascia un po’ perplessi, invece, è il riferimento al rapporto padre-figlio che De Donno fa subito dopo, parlando di Massimo: “Massimo Ciancimino non ha avuto nessun ruolo tranne quello di o portarci il caffè quando eravamo a colloquio con il padre o quello di contattarmi per dirmi che il padre voleva vedermi. Ma il padre, le dirò di più, non aveva assolutamente nessuna fiducia nei confronti di Massimo Ciancimino e, rispettando questa consegna, io non ho mai parlato con Massimo Ciancimino neanche negli altri incontri di quello che stavamo facendo con il padre.”


In realtà, nulla di quanto dice De Donno intacca di un solo millimetro la ricostruzione di Massimo Ciancimino, il quale non ha mai dichiarato di avere avuto un qualche ruolo importante negli incontri tra suo padre e gli ufficiali del ROS, ha riferito correttamente di non aver mai partecipato a quegli incontri ma di averli semplicemente organizzati, e ha raccontato che il padre gli parlò dei contenuti di quegli incontri sono molti anni più tardi. Vito Ciancimino non aveva nessuna fiducia nel figlio? Può darsi. Anche se, allora, appare molto strano il fatto che Massimo sia stato, a detta anche di tutti gli altri quattro fratelli maggiori, la persona da sempre più vicina e legata al padre, con cui aveva iniziato a scrivere pure un libro che avrebbe raccolto tutte le sue memorie. E d’altra parte non si vede come questo dato, ancorché fosse vero, possa minare l’attendibilità di Ciancimino jr. L’argomentazione di De Donno, in questo caso, appare decisamente debole.


Così come non pare di sostanziale importanza il fatto che De Donno ribadisca di non aver mai saputo nulla del famigerato papello: “Io non ho mai visto il papello, non ha mai visto il papello il colonnello Mori e non ci è stato mai mostrato nessun papello da Vito Calogero Ciancimino. Le dirò di più. Vito Calogero Ciancimino nei nostri incontri non ha mai parlato dell’esistenza di un papello.” A voler prendere le parole di De Donno alla lettera, questa precisazione non escluderebbe che Vito Ciancimino abbia potuto parlare ai Carabinieri dei contenuti del papello senza fare alcun riferimento al pezzo di carta in sé. Ciò che conta, è ovvio, è ciò che Don Vito ha effettivamente raccontato agli ufficiali e come ha risposto alla domanda postagli dal colonnello Mori: “Ma signor Ciancimino, ma cos'è questa storia qua? Ormai c'è muro contro muro. Da una parte c'è Cosa Nostra, dall'altra parte c'è lo Stato. Ma non si può parlare con questa gente?”.

Capire se sia esistito davvero questo famoso papello, della cui esistenza tra l’altro parlò per primo Giovanni Brusca in tempi non sospetti, o se sia autentica la copia consegnata da Massimo Ciancimino ai magistrati di Palermo su cui è scritto esplicitamente in stampatello “CONSEGNATO PERSONALMENTE AL COLONNELLO DEL ROS MARIO MORI”, diventerebbe semplicemente una nota di colore nel caso in cui venisse dimostrato che una trattativa precisa, articolata e continuata tra pezzi dello Stato e i capi di Cosa Nostra effettivamente c’è stata. Sarebbe solo l’ultimo tassello di un puzzle fin troppo chiaro. Nulla aggiunge e nulla toglie dunque questa negazione di De Donno. Il problema non è il papello in sé. Il problema è se, dei contenuti che sarebbero stati presenti nel papello, si sia parlato o meno.


Se dunque, fino a questo punto, le dichiarazioni di De Donno, lungi dallo smentire la dettagliata ricostruzione offerta da Massimo Ciancimino ai magistrati di Palermo, possono apparire abbastanza scontate e in linea con la tesi difensiva da sempre sostenuta, è il finale dell’intervista a lasciare completamente spiazzati. De Donno la butta lì, come fosse una cosa da nulla, quasi fosse ovvio e risaputo. E lo fa soppesando ancor di più le parole, cercando l’aggettivo giusto, addirittura l’avverbio adatto, quello che possa rendere la frase più esatta possibile. Ma quello che dice è devastante. Lo scenario che prospetta non può che destare sconcerto.

Dice: “Noi ci inseriamo inconsapevolmente in un terreno estremamente minato sconoscendo, chiaramente, che, verosimilmente, qualcuno stava discutendo realmente con Cosa Nostra e non per gli stessi obiettivi che noi perseguivamo. Se trattativa esisteva, probabilmente era condotta da qualche parte, sicuramente politica o rappresentativa di alcuni interessi economici di lobby, che però era realmente in grado di mantenere eventuali promesse."


E’ necessario rileggere il tutto lentamente, parola per parola, per comprendere appieno quello che il capitano ha voluto dire, il messaggio che ha voluto lanciare. Gli avverbi, pesantemente reiterati, raccontano più delle parole stesse. Noi ci inseriamo inconsapevolmente. “Inconsapevolmente”. De Donno ci sta dicendo che l’idea del ROS di avvicinare Ciancimino fu qualcosa di assolutamente spontaneo, quasi ingenuo. Non avevano idea di essersi addentrati in un terreno “estremamente” minato, come se decidere di mettersi a parlare con i capi corleonesi per intermediazione di Vito Ciancimino fosse la cosa più naturale e scontata che i due ufficiali dei Carabinieri potessero fare in quel momento. “Sconoscendo, chiaramente, che, verosimilmente, qualcuno stava discutendo realmente”. Le parole soppesate come macigni. Traduzione: è ovvio, dice De Donno, che loro non potessero sapere che, invece, alle loro spalle c’era qualcun altro che portava avanti la trattativa ad un livello superiore e con obiettivi differenti. E’ ovvio? Dunque la trattativa ci fu e fu gestita addirittura da apparati superiori? Beh, se non fosse già abbastanza chiaro, De Donno lo spiega senza mezzi termini: “Se trattativa esisteva, probabilmente era condotta da qualche parte, sicuramente politica o rappresentativa di alcuni interessi economici di lobby”.


Tra un “probabilmente”, un “sicuramente” e un “verosimilmente”, De Donno lascia cadere la bomba. Se una trattativa vera e propria ci fu, questa la sua ipotesi, essa fu gestita da interessi politico-affaristici, con i quali i ROS non hanno mai avuto a che fare. Anzi, i ROS si trovarono semplicemente in mezzo, “inconsapevolmente”, in un gioco più grande di loro. Come a dire: dopo gli ultimi sviluppi di indagine, tenendo conto anche delle dichiarazioni incrociate di Massimo Ciancimino, dell’ex ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli, dell’ex presidente della Commissione Antimafia Luciano Violante, dell’ex direttore degli Affari Penali Liliana Ferraro, dell’ex segretario generale presso la Presidenza del Consiglio Fernanda Contri, fino ad arrivare alle ultime esternazioni del procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, sarà difficile continuare a smentire l’esistenza di una trattativa, ma chi di dovere sappia che le responsabilità vanno cercate altrove. Chi ha orecchie per intendere, intenda.

E nell’attesa di capire se questa nuova teoria, alquanto audace per la verità, della “doppia-trattativa”, una condotta dal ROS con fini nobili e una condotta parallelamente da imprecisate lobby di potere con fini eversivi, possa avere un qualche senso logico, la palla avvelenata viene rimbalzata prepotentemente lontano dal ROS. E anche se la notizia non ha avuto la necessaria eco mediatica, siamo certi che coloro ai quali il messaggio di De Donno era diretto, in questo momento staranno già pensando a come raccogliere e ributtare indietro quella palla. Possibilmente senza farsi troppo male.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Il puzzle ricomposto. Ecco la cronologia esatta della trattativa 4 Jun 2010 4:00 PM (15 years ago)



Quella che presentiamo qui di seguito è la ricostruzione cronologica più fedele e meticolosa che mai sia stata fatta di tutte le fasi salienti della cosiddetta “trattativa” tra i vertici di Cosa Nostra e pezzi delle Istituzioni, a partire dalla seconda settimana del mese di giungo 1992 quando il capitano del Reparto Operativo Speciale (Ros) dei Carabinieri Giuseppe De Donno incontra per la prima volta l'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino fino a giungere ai giorni nostri. Questa ricostruzione, che si concentra principalmente sul periodo più oscuro e controverso che va dalla morte di Salvo Lima (12 marzo 1992) fino all'arresto di Totò Riina (15 gennaio 1993) passando attraverso le stragi di Capaci e Via D'Amelio, è basata su un lavoro di ricerca, di analisi e di raffronto fra vari tipi di documentazione: i verbali di interrogatorio resi alla procura di Palermo da Massimo Ciancimino (il figlio prediletto di don Vito), le deposizioni dello stesso Massimo ma anche del fratello Giovanni, del colonnello Michele Riccio e di Luciano Violante al processo a carico di Mario Mori e Mauro Obinu in corso a Palermo per favoreggiamento a Cosa Nostra, le dichiarazioni spontanee dello stesso generale Mori, articoli di giornale recuperati in archivio, pizzini inediti, manoscritti autentici, agende personali, carte e carteggi originali sequestrati dall'autorità giudiziaria, dichiarazioni ufficiali rilasciate dai vari protagonisti nel corso degli anni, sentenze passate in giudicato, eventi storici indiscutibili e fatti ormai acquisiti.


Quello che ne esce è un puzzle impressionante, ricomposto tassello per tassello, che, pur presentando ancora qualche buco nero, si lascia guardare in tutta la sua interezza. E svela una Verità che fa male, malissimo, e che ormai viene a galla in tutte le sue sfumature più indecenti. Racconta di un'Italia che per quasi un anno, dal marzo '92 fino al gennaio '93, è stata letteralmente in balia, con la presunta complicità di estesi apparati dello Stato, di un pazzo criminale analfabeta, al secolo Totò U' Curtu. E che, per i restanti tredici anni successivi al suo arresto, ha vissuto in precario equilibrio su un filo sottilissimo sospeso nel vuoto. Da un lato, a tenere il filo, oscuri personaggi in auto blu. Dall'altro, Bernardo Provenzano.


La cronologia esatta della trattativa


Giugno 1990

Il capitano del Ros Giuseppe De Donno esegue un mandato d'arresto nei confronti di Vito Ciancimino per irregolarita' nella gestione degli appalti. Viene perquisito il suo villino a Mondello (Palermo). E' in questa occasione che De Donno conosce per la prima volta sia don Vito che il figlio Massimo. Entrambi, padre e figlio, ne apprezzano l'atteggiamento molto gentile e professionale. Fra di loro si instaura un rapporto di fiducia e cordialità, tanto che, da quel momento in poi, Massimo e De Donno, coetanei, si incontreranno spesso, sia al bar che in caserma, e inizieranno a darsi del tu.

Luglio 1990

Dopo meno di un mese, la Suprema Corte di Cassazione presieduta da Corrado Carnevale annulla la misura di custodia cautelare nei confronti di Vito Ciancimino. Don Vito esce dal carcere.

Prima metà del 1991

Vito Ciancimino si trova nella sua abitazione romana di Via San Sebastianello 9 a pochi passi da Piazza di Spagna: su di lui pende un divieto di soggiorno a Palermo. Don Vito ordina al figlio Massimo di scendere a Palermo, di recarsi a casa di Pino Lipari a San Vito Lo Capo e di farsi consegnare una busta. La cosa è agevolata dal fatto che Massimo è fidanzato con la figlia di Lipari, Rossana. Ad attenderlo ci sono sia Pino Lipari che Bernardo Provenzano. Gli consegnano la busta, chiusa ma non incollata. Massimo la riporta al padre. La aprono e la leggono insieme. Don Vito non è sorpreso: se l'aspettava. La lettera è indirizzata al dottor Marcello Dell'Utri e contiene esplicite minacce all'incolumità dei figli di Berlusconi. Don Vito ha il compito di dare il suo parere sulla missiva e poi di consegnarne una copia ad un certo signor Franco.
E' bene qui aprire una piccola parentesi su questo oscuro personaggio, la cui presenza sarà costante durante le varie fasi della trattativa. Il nome con cui Massimo Ciancimino è solito chiamarlo (l'ha memorizzato così sul cellulare) è Franco. Così glielo ha presentato suo padre. Don Vito invece, nei suoi incontri privati, lo chiama Carlo. Essendo entrambi, molto probabilmente, nomi di fantasia utilizzati per coprire l'identità del personaggio, lo chiameremo d'ora in poi col nome ormai giornalisticamente più diffuso, ovvero Franco. Residente a Roma, all'epoca tra i 45 e i 50 anni, brizzolato, occhiale quadrato, senza barba né baffi, molto alto, con tre-quattro passaporti, il signor Franco è uno degli uomini più potenti all'interno dei Servizi Segreti, in contatto con i piani alti delle istituzioni e in collegamento diretto con Bernardo Provenzano. Gira in Mercedes blu per le vie di Roma. Tanto per dire, questo signor Franco, insieme a don Vito, incontrerà almeno un paio di volte, in via di Villa Massimo e in Via del Tritone a Roma, gli ex Alti Commissari per la lotta alla mafia, il dottor Emanuele De Francesco e il dottor Domenico Sica. La conoscenza tra Franco e la famiglia Ciancimino risale addirittura agli anni '70, ma Massimo continuerà a vederlo fino alla morte del padre nel 2002. Massimo si dice sicuro che il signor Franco sia tuttora in vita.

15 Dicembre 1991

Gaspare Mutolo, mafioso affiliato alla famiglia di Partanna Mondello, agli arresti nel centro clinico di Pisa, incontra durante un colloquio riservato Giovanni Falcone al quale comunica la sua intenzione di diventare collaboratore di giustizia. Falcone prende atto della scelta di Mutolo ma lo informa che, in qualità di Direttore degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia, non potrà interrogarlo di persona ma troverà un valido sostituto al quale affidarlo. Mutolo non sa se iniziare la collaborazione perché è disposto a farlo solo con una persona di assoluta fiducia e per questo aveva deciso di affidarsi a Falcone. Il giudice spiega allora a Mutolo l'importanza del suo lavoro a Roma al ministero e cerca di convincerlo a non perdere l’opportunità della collaborazione. Mutolo si riserva di decidere. Falcone e Mutolo si lasciano con l’impegno di non comunicare a nessuno il contenuto della discussione. Mutolo si mostra subito estremamente preoccupato per una possibile fuga di notizie in ambienti istituzionali. Purtroppo anche nel suo ufficio ci sono amici dei mafiosi”, dice Mutolo al giudice Falcone facendogli espressamente i nomi di “Mimmo e Bruno”. Falcone capisce che si tratta rispettivamente di Domenico Signorino e Bruno Contrada e promette che, in caso Mutolo decida di collaborare, troverà un collega serio e fidato che possa occuparsi del suo caso.

30 gennaio 1992

La Cassazione conferma le condanne del maxiprocesso istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Gli ergastoli comminati alla cupola di Cosa Nostra diventano definitivi.

12 marzo 1992

L'eurodeputato democristiano Salvo Lima, proconsole del primo ministro Giulio Andreotti in Sicilia, viene assassinato a Mondello (Palermo). In macchina con lui c'è anche Nando Liggio, che assiste alla scena dell'esecuzione, una delle più terribili di sempre. Lima ha infatti il tempo di capire esattamente a cosa stia andando incontro: si accorge dell'agguato, scende dalla macchina, tenta di scappare, i sicari lo inseguono per almeno un paio di minuti e poi lo freddano a colpi di pistola. Giovanni Ciancimino, l'altro figlio di don Vito, riferisce che il padre, subito dopo l'omicidio, era molto provato e spaventato. Era convinto infatti che avrebbe fatto la stessa fine di Lima. “Lui diceva sempre: - Chissà se ci rivedremo di nuovo... -” Don Vito non ritiene nemmeno prudente scendere a Palermo per i funerali. Ci manda Massimo a portare le sue condoglianze.

15 marzo 1992

Massimo Ciancimino viene contattato dallo zio Giuseppe Lisotta. Gli riferisce che Nando Liggio chiede un incontro immediato con suo padre. Ha visto in faccia gli assassini di Lima ed ora è terrorizzato, si nasconde e non esce più nemmeno di casa. Massimo torna a Roma e comunica la richiesta al padre.

Terza settimana di marzo 1992

Don Vito, nonostante i timori, decide di scendere a Palermo. Incontra prima Lisotta e poi Provenzano in un appartamento in via Leonardo da Vinci. E' un incontro di fondamentale importanza, “un incontro clou” come lo definirà Massimo. Riina aveva appena mandato a dire a Provenzano di non preoccuparsi delle possibili reazioni dello Stato all'omicidio Lima, perché lui aveva tutto sotto controllo. Anzi, avrebbe dovuto spargere la voce, per dimostrare quale fine poteva fare chi non rispettava i patti. Di fronte a don Vito, Provenzano esterna tutto il suo disappunto: “Riina sta prendendo una piega che non mi piace. Gli hanno riempito la testa di minchiate. Qualcuno gli ha promesso, garantito qualcosa di grosso, veramente grosso. Ha intenzioni brutte. Anch'io, siccome prevedo che ci saranno gravi conseguenze, ho fatto rientrare la mia famiglia in Italia, perché prevedo che ci saranno reazioni da parte dello Stato”. Sia Provenzano che don Vito concordano sul punto: notano una vena di follia nell'atteggiamento di Riina. Provenzano, molto lucidamente, capisce che di lì a poco la situazione sarebbe precipitata. Sa che Riina non ha intenzione di fermarsi nel suo attacco allo Stato e il suo intento è quello di “tagliare certi rami secchi”, ovvero rompere quei legami politici stantii da cui ormai Cosa Nostra non può più trarre alcun giovamento. Per la prima volta, Provenzano mette in guardia don Vito dall'escalation criminale che frulla nella mente malata di Riina: l'omicidio Lima rappresenta la chiusura di vecchi rapporti e l'inizio di nuovi. Ma soprattutto: Riina ha in mano una lunga lista di nomi di politici e magistrati da far fuori. Don Vito rimane profondamente colpito dalle parole di Provenzano. Mai aveva pensato che Cosa Nostra potesse addentrarsi in una "strategia" a lungo termine. La stessa parola "strategia" era estranea al vocabolario mafioso. Cosa Nostra aveva sempre agito secondo una logica impulsiva, di azione-reazione. Evidentemente qualcosa era cambiato. Questa non era piu', solamente, mafia.
E cosa intende allora Provenzano quando dice: “Qualcuno gli ha promesso qualcosa di grosso”? Don Vito ne parlerà personalmente a Massimo nel 2000. Secondo lui, Riina, ai tempi dell'omicidio Lima, già aveva trovato nuovi referenti che l'avevano assecondato nel suo folle piano e che in qualche modo l'avevano utilizzato per dare la spallata definitiva alla già traballante Prima Repubblica. Il “grosso progetto”, secondo don Vito, era infatti quello di porre le condizioni per far nascere un grande movimento elettorale di centro, che prendesse il posto di quello che erano i partiti di riferimento di allora, travolti dallo scandalo di Tangentopoli. La mafia doveva smettere di dipendere dalla politica. Doveva iniziare a fare politica. “Oggi come oggi – racconterà don Vito pochi mesi prima di morire - mi rendo conto che infine capisco quale era il piatto della bilancia: la nascita di questa grande, nuova formazione di Centro che oggi ha un peso e che da quegli anni governa costantemente le sorti del paese”.

24 aprile 1992

Crolla il governo. Il Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, travolto dalle polemiche seguite all'omicidio Lima, rassegna le sue dimissioni al Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

26 aprile 1992

Due giorni dopo, lo stesso Cossiga si rivolge alla nazione con un discorso televisivo a reti unificate e si dimette pubblicamente. Lo Stato è in ginocchio.

18 maggio 1992

Giovanni Falcone, Vito Ciancimino e il figlio Massimo si ritrovano casualmente sullo stesso aereo da Palermo a Roma. Don Vito è una vecchia conoscenza di Falcone. L'aveva fatto arrestare nel lontano '84. Scherzo del destino. Non si rivedranno mai più.

23 maggio 1992

Falcone torna da Roma e ad attenderlo allo svincolo di Capaci c'è una carica di tritolo che uccide lui, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Rocco Di Cillo, Antonino Montinaro e Vito Schifani.

25 maggio 1992

Dopo innumerevoli fumate nere viene eletto il nuovo capo dello stato. Contro tutti i pronostici che vedevano Giulio Andreotti favorito, viene scelto a sorpresa Oscar Luigi Scalfaro.

28 maggio 1992

In occasione della presentazione di un libro, il ministro Vincenzo Scotti candida pubblicamente Paolo Borsellino al vertice della Superprocura Antimafia. Borsellino non la prende bene. Esporlo in quel modo equivale a metterlo al centro del mirino mafioso. Infatti, uno dei possibili moventi per la strage di Capaci era proprio l'aver impedito la nomina di Falcone a Superprocuratore Nazionale Antimafia. Calogero Pulci, collaboratore di giustizia, racconterà che la sera di quello stesso giorno si trovava a tavola con altri mafiosi quando il TG3 trasmise le immagini della conferenza stampa di Scotti e Martelli. All’udire le loro parole, Piddu Madonia esclama: “E murì Bursellinu”. Pochi giorni dopo, Borsellino commenterà l’uscita di Scotti in un colloquio con il tenente Carmelo Canale: “Hanno messo l’osso davanti ai cani”.

30 maggio 1992

Massimo Ciancimino e il capitano del Ros Giuseppe De Donno si incontrano casualmente nell'area del check-in dell'aeroporto di Fiumicino. Entrambi devono prendere lo stesso volo Roma-Palermo. De Donno chiede alla hostess di trovare un posto vicino per i due. Viaggeranno accanto per tutta la durata del volo. Parlando della strage di Capaci, Massimo rivela a De Donno che il padre è rimasto molto scosso e gli ha riferito: “Questa non è più mafia. Questo è terrorismo!”. De Donno chiede a Massimo se suo padre sarebbe disposto a fare una chiacchierata con lui e con il suo superiore Mario Mori. Non in veste ufficiale ovviamente, ma in veste confidenziale. Gli lascia il suo numero di cellulare perché lo ricontatti al più presto.

1 giugno 1992

Massimo torna a Roma dopo il weekend passato a Palermo e riferisce al padre il contenuto del colloquio con il capitano De Donno. Prevede una reazione negativa da parte del padre, che era sempre stato allergico agli uomini in divisa. Invece, in modo quasi insolito, don Vito non appare meravigliato della proposta di De Donno e anzi dice di voler prendersi un paio di giorni per pensarci su con calma.

Prima settimana di giugno 1992

Provenzano passa a trovare don Vito nella sua abitazione romana. L'incontro era già stato programmato da tempo, ma il momento è propizio per parlare della trattativa. Don Vito infatti chiede a Provenzano consigli su come muoversi e vuole da lui un'autorizzazione ufficiale a parlare con i Carabinieri. Il boss dà il via libera a don Vito a trattare. Provenzano infatti non ha digerito le morti di Salvo Lima e Giovanni Falcone. Si è convinto ormai che Riina sia un pazzo da fermare a tutti i costi o porterà alla dissoluzione di Cosa Nostra in breve tempo. Nonostante le diffidenze verso l'Arma, considera la trattativa come l'unica strada percorribile: “Va bene, facciamo un tentativo, prova a trattare, prova a proporti da mediatore tra Riina, Cinà e i Carabinieri e vediamo cosa succede”. Provenzano da quel momento in poi seguirà l'evolversi della trattativa dall'esterno e verrà costantemente informato da don Vito dell'evolversi degli eventi.

Appena congedato Provenzano, don Vito, nella stessa giornata, manda a chiamare anche il signor Franco. Stessi discorsi, stesse autorizzazioni richieste. Anche Franco è d'accordo: sarà lui personalmente a gestire la trattativa, ma ad un livello più alto, facendo da anello di raccordo tra istituzioni e Cosa Nostra. Una sorta di garante esterno che però si terrà rigorosamente fuori dalla melma delle richieste e contro-richieste. Per quello ci sono i Carabinieri, che verranno mandati avanti a compiere il lavoro sporco.

Ottenuto il via libera, don Vito ordina a Massimo di contattare il capitano De Donno per stabilire immediatamente un appuntamento. Il giorno successivo, Massimo e De Donno si incontrano a Roma in zona Parioli. Parlottano. De Donno gli dice che lo richiamerà il giorno dopo. E così fa: il capitano del Ros spiega a Massimo che la loro idea è quella di costruire "un canale preferenziale e privilegiato” per poter interloquire con i vertici di Cosa Nostra tramite una persona stimata come suo padre. La proposta messa sul piatto dai Carabinieri è la resa totale e incondizionata di Cosa Nostra e l'auto-consegna dei superlatitanti. In cambio, lo Stato avrebbe assicurato agevolazioni alle famiglie dei mafiosi (mogli e figli), avrebbe avuto un occhio di riguardo per i loro patrimoni e lo stesso don Vito ne avrebbe tratto vantaggi personali in termini di agevolazioni processuali. Massimo è dubbioso, vuole garanzie, teme per la sua vita. Se viene fuori solo una parola sul fatto che sta facendo da tramite tra i Carabinieri e Vito Ciancimino per la cattura dei superlatitanti, è virtualmente un uomo morto. De Donno lo tranquillizza, gli assicura che nessuna notizia su questa trattativa sarebbe mai venuta fuori. Né ora né mai. Gli consiglia di prendere minime precauzioni e di viaggiare in areo in incognito con il nome “Cianci”. Alla fine Massimo si convince e organizza l'incontro con il padre a Roma in via San Sebastianello 9. La trattativa è ufficialmente avviata.


Continua su www.19luglio1992.com

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

La democrazia interpretata 7 Mar 2010 7:23 PM (15 years ago)


Dopo tanto tempo in cui mi sono dedicato ad altro, torno a scrivere. Avevo deciso di utilizzare quel poco di tempo libero che ho in questo periodo per attendere a cose “più importanti” della becera politica italiana. Avevo deciso di abbandonare momentaneamente l'impegno del blog personale per dare una mano a Salvatore Borsellino e portare avanti il suo di sito insieme ad un piccolo gruppo di altri ragazzi straordinari. E così ho fatto e continuerò a fare.

Oggi però farò uno strappo alla regola perché le notizie che mi giungono qui in America dall'Italia, nonostante la lontananza e il fuso orario, sono qualcosa che umilia profondamente la coscienza civile di quei cittadini onesti che hanno il torto di credere ancora nelle istituzioni del paese in cui sono nati e vivono. E' successo qualcosa di profondamente “italiano”, nel senso più classico e stereotipato del termine. E' successo che un “pasticciaccio” dai contorni goldoniani ha avuto il potere di mettere a nudo la necrosi della democrazia italiana. Una necrosi che, da tempo, chi ha gli occhi per vedere, vede nitidamente. Ma che ora si manifesta in tutta la sua indecenza.

E' nato tutto da un panino. Un innocuo panino che ha ritardato la consegna delle firme del Pdl nel Lazio. Una scena “fantozziana”, con il delegato alla consegna che, spinto da un'impellente quanto incomprensibile fame ferina e salivazione da competizione, veniva fermato sulla porta con il boccone ancora in gola, le briciole del pane tutte sparse sulla giacca e gli scatoloni con le firme tragicamente adagiate sul piazzale di fronte al Tribunale. Tempo scaduto. Cosa sia passato nella testa (ma soprattutto nello stomaco) del poveretto che, come ho saputo da fonti che rimarranno rigorosamente anonime, è stato crocifisso in sala mensa ed esposto al pubblico ludibrio, non sarà mai dato sapere. Aveva davvero ceduto ai succhi gastrici o aveva cercato di cambiare i nomi dei candidati all'ultimo momento? Non lo sapremo mai. Ma, a questo punto, non ha nemmeno alcun interesse saperlo. Rimane giusto la compassione per un caso umano, che si è giocato faccia, lavoro e carriera per un panino alla mortadella.

E qui termina la farsa tipicamente italiana. L'inno all'approssimazione e alla “arruffoneria” che purtroppo ci distingue in tutto il mondo. Tutto il resto è un precipitare incontrollabile di eventi. Ricorsi e contro-ricorsi respinti. La lista di Formigoni anch'essa esclusa a sorpresa. Le firme sono state consegnate in tempo, ma non sono sufficienti. Timbri mancanti, certificazioni illeggibili. Fuori il principale candidato alla regione Lombardia, da 15 anni presidente incontrastato. Scoppia la bufera, dichiarazioni deliranti, c'è chi vuole scendere in piazza, chi attacca i giudici comunisti, chi grida al golpe, chi reclama il diritto al voto, chi denuncia l'ottusità di una giustizia che guarda i cavilli e tralascia la sostanza. Berlusconi annuncia una grande manifestazione popolare per il diritto al voto. Anche se non si capisce bene contro chi vorrebbe protestare (i giudici comunisti? il suo delegato beccato col panino in bocca? la legge che il suo partito ha votato? i timbri difettosi? la costituzione bolscevica?), i giornali riprendono le sue esternazioni. E monta la polemica. Si solleva il dibattito: Polverini sì, Polverini no, Formigoni sì, Formigoni no. Come se fosse una questione di opinioni o di sondaggi, non di regole.

La data delle elezioni si avvicina paurosamente e le corti d'Appello di Roma e di Milano continuano a bocciare i ricorsi. Rimane solo il Tar come unico appiglio. Troppo poco. Non si può rischiare. Berlusconi gioca l'ultima carta possibile. Un azzardo che nemmeno lui sa bene come gestire. Nemmeno lui che è riuscito negli anni a farsi approvare in serie dal Parlamento leggi su misura in una corsa forsennata contro il tempo per bloccare i suoi processi prima che arrivassero a sentenza. Butta lì la minaccia di un decreto legge. Un decreto legge che stabilisce che il suo partito è più uguale degli altri. Nel mezzo della campagna elettorale. Una campagna elettorale dove, per assicurare la massima par condicio possibile ed immaginabile, la Rai, per dire, ha avuto la grandiosa trovata di zittire ogni voce in circolazione. Siccome non si riusciva ad assicurare un pari trattamento ai partiti nei programmi di informazione politica si è preferito chiuderli del tutto. Giusto per non sbagliare. Poi si sono dimenticati di oscurare Minzolini, tanto per fare un nome, ma questa è un'altra storia. E forse avevano ragione loro. Quella non è informazione. Ecco, in questo sistema delicatissimo di equilibri, arriva come un bisonte il presidente del consiglio, che butta all'aria il tavolo e minaccia di farsi un decreto legge ad hoc per legalizzare l'illegalità. Una cosa che non sta né in cielo né in terra. E infatti non ci crede nemmeno lui. E' una sparata che ha più il tono di un appello disperato a chi di dovere: fate qualcosa o io qui pianto un casino. Insorge l'opposizione. Bersani è categorico. L'idea di un dl è qualcosa di aberrante. Se ne discute. L'idea di cambiare la legge elettorale in corso è qualcosa di palesemente anti-costituzionale. Non c'è alcuna possibilità che un discorso del genere venga preso in considerazione. Berlusconi fa marcia in dietro. Bluffa. Non c'è in programma nessun decreto di legge. Vuole sondare il terreno. Aspetta un segnale.

E il segnale, come sempre, arriva. Non dall'opposizione, incredibilmente ferma sulle sue posizioni. No. Questa volta a salvare Berlusconi ci pensa direttamente il Capo dello Stato, il garante della Carta Costituzionale. Fa sapere dall'estero di essere molto preoccupato per il “pasticcio” che si è venuto a creare. Dice di non voler essere tirato in ballo in qualcosa in cui non può avere voce in capitolo. Ma, sotto sotto, lo staff del Quirinale inizia una febbrile trattativa con lo staff di Palazzo Chigi. Bisogna arrivare ad un accordo. Napolitano non firmerà mai un decreto legge che cambi la legge elettorale. Il tradimento alla Costituzione sarebbe troppo palese. Su questo fronte non ci sono margini per trattare. Ma non si può nemmeno escludere il Pdl dalla corsa in Lazio e Lombardia. E allora. Allora ci sarebbe un modo. Se voi riuscite a cambiare la legge senza cambiarla, magari con un decreto “interpretativo” che apparentemente non viola la Costituzione e allo stesso tempo vi consente di partecipare alla tornata elettorale, allora bene, io vi firmo il decreto senza problemi. E' un suggerimento geniale. Cosa c'è di meglio che scrivere un decreto per “interpretare al meglio” la legge corrente? Niente cambiamenti. Niente stravolgimenti. Solo una ovvia, semplice e doverosa “interpretazione”. Perché, così com'è, la legge non si capisce molto bene. E' un po' ambigua.

Per esempio, quando dice che il termine della scadenza per la consegna delle firme nel Tribunale competente è mezzogiorno. Beh, è troppo generico. E' una legge scritta coi piedi. Cosa succede se io ci entro con le firme e poi, che ne so, mi viene fame e mi viene voglia di farmi un panino? E' possibile in uno stato di diritto che mi venga privato il diritto di soddisfare i miei bisogni primari, tra cui c'è quello di nutrirmi? No, ovviamente. E quindi la norma deve essere così interpretata: “il rispetto dei termini orari di presentazione delle liste si considera assolto quando, entro gli stessi, i delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, abbiano fatto ingresso nei locali del Tribunale”. Chissenefrega se poi si sono dimenticati di consegnarle, se ne sono andati e non han fatto più ritorno. Loro c'erano entrati in Tribunale, anche solo per andare al cesso, e questo basta.

Oppure, quando la legge dice che le firme devono essere certificate e il timbro dell'autorità certificante deve essere ben leggibile. Beh, è troppo cavillosa. Che sarà mai un timbro illeggibile? Se non è leggibile, lo si renderà leggibile. Che sarà mai un'autorizzazione non autorizzata? Se non è autorizzata, si autorizzerà. E quindi la norma deve essere così interpretata: “le firme si considerano valide anche se l'autenticazione non risulti corredata da tutti gli elementi richiesti dall'articolo 21, comma 2, ultima parte, del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, purché tali dati siano comunque desumibili in modo univoco da altri elementi presenti nella documentazione prodotta. In particolare, la regolarità della autenticazione delle firme non è comunque inficiata dalla presenza di una irregolarità meramente formale quale la mancanza o la non leggibilità del timbro della autorità autenticante, dell'indicazione del luogo di autenticazione, nonché dell'indicazione della qualificazione dell'autorità autenticante, purché autorizzata”. Tradotto: le firme sono valide anche se non sono valide. Ecco, questo è molto più ragionevole e molto più chiaro. Direi: l'interpretazione oggettivamente più corretta della legge.

Lo stillicidio dura una giornata intera. Decreto legge sì, decreto legge no. Lo fanno, non lo fanno. Consiglio dei ministri sì, consiglio dei ministri no. Lo faranno, non lo faranno. Poi, a tarda sera, Berlusconi rompe gli indugi e convoca tutti a Palazzo Chigi. Ci mettono 35 minuti a scriverlo, questo decreto legge di tre paginette in quattro punti. Anzi, 35 minuti è quanto è durato in totale il consiglio dei ministri. Tolti i convenevoli, la stesura del testo ha occupato dai 10 ai 15 minuti. Poi i ministri della Repubblica italiana in nome del popolo italiano si sono alzati in piedi soddisfatti, hanno tirato un sospiro di sollievo per il buon lavoro fatto e hanno presentato il conto a Napolitano. Il quale, si dice, sempre da fonti anonime che non rivelerò, stesse aspettando con impazienza fuori dalla porta con la penna in mano. Chi l'ha visto racconta di un Presidente pallido e sudato, teso all'inverosimile, ansioso di apporre l'augusta firma. Ha tentato persino di entrare nel bel mezzo del consiglio dei ministri per assicurarsi che tutto stesse procedendo in modo spedito, ma le guardie l'hanno fermato e l'hanno calmato. Non c'è bisogno Presidente, vedrà che se la sbrigano in un attimo. Abbia un po' di pazienza. E allora voi dovete immaginare la sua faccia quando la porta finalmente si è aperta, dopo un'attesa infinita di 35 minuti, ed è apparso Angelino Alfano con il volto radioso, l'occhio leggermente strabico dalla fatica e il decreto legge fresco di stampa tra le mani. Un capolavoro d'arte italiana. Nel vero senso della parola. Un decreto legge che riesce a stravolgere una legge senza cambiarla. Un colpo di classe. Degno della più grande tradizione del genio italico.

Ci ha messo un nanosecondo, il Presidente, a firmarlo in nome del popolo italiano. Si è avventato con furia sul povero Angelino, che s'è preso pure un po' di spavento, gli ha strappato di mano il decreto legge e l'ha firmato lì su due piedi, appoggiando il foglio sulle spalle capienti di Bondi. Poi, distrutto dalla tensione, si è accasciato al suolo, disfatto ma soddisfatto. Era quasi mezzanotte. Non aveva mai tirato certe ore, si capisce.

Poi se n'è andato a dormire e la mattina seguente, quando ha aperto la posta elettronica del Quirinale, si è trovato la casella intasata di insulti. S'è preso un colpo. Ma come? Invece di ringraziarlo per aver brillantemente battuto ogni record di apposizione di firma a decreto legge “ad partitum”, nuova competizione olimpica appena introdotta in suo onore, c'era qualche birichino che si divertiva a dissentire. E allora dovete immaginarlo, Giorgio, in vestaglia, che proprio gli girano i cinque minuti, prende carta e penna e decide di rispondere seccato. Per dare una lezione di democrazia a questi ignoranti e trogloditi che non sanno apprezzare l'equilibrio del più saggio capo dello stato degli ultimi sessantanni. Così come aveva fatto con quel poveretto che per strada gli aveva chiesto gentilmente di non firmare il lodo Alfano. O forse era qualche altra legge porcata. Ma non importa. Lui se l'era presa come non mai. Si era raddrizzato tutto indispettito e aveva tenuto al malcapitato una lezione di diritto costituzionale. Che s'ha dda fa pe' campà. E poi se n'era andato scuro in volto. Ma gli aveva proprio rovinato la giornata, quella cosa. E adesso di nuovo. Altre mail di dissenso. No, questa non passa. Ci vuole una risposta ufficiale sul sito ufficiale del Quirinale. Come fanno i giovani. Che chattano su internet.

E ora voglio tornare serio per un attimo. Perché qui c'è proprio poco da scherzare. Il testo della risposta data da Giorgio Napolitano rimarrà come una ferita nera nella storia della Repubblica italiana. Perché è una risposta assolutamente inaccettabile per chi ha come primo dovere quello di essere il massimo rappresentante della Costituzione, ovvero il garante della legalità e dello stato di diritto. E' una risposta che certifica nero su bianco l'alto tradimento compiuto dal Capo dello Stato. Un alto tradimento che è ancora più indecente perché consumato nell'assoluta convinzione (questo glielo concedo) di essere dalla parte del giusto, di star davvero facendo il bene del paese.

Prima di iniziare la sua lettera, Napolitano cita due email che gli sono arrivate. Due email che dovrebbero rappresentante gli opposti stati d'animo, egualmente degni di considerazione, di due esemplari di cittadini. Quello che chiede al presidente di non firmare perché non venga calpestata la legge e quello che gli chiede invece di firmare perché non venga negato il diritto di voto. Napolitano le posta in incipit, come a dire: vedete tra quali due opposte necessità apparentemente inconciliabili ho dovuto trovare una mediazione? Peccato che il presidente non si accorga che la lettera della signora M. Cristina Varenna che chiede “di fare tutto quello che lei può per lasciarci la possibilità di votare in Lombardia. Se così non fosse, sarebbe un grave attentato al diritto di voto” è indirizzata al destinatario sbagliato. Ciò che ha attentato al diritto di voto della signora Varenna non è stato nessun mezzuccio sporco dell'opposizione, non è nessun giudice comunista: è stata solamente l'insipienza e la dabbenaggine dei suoi rappresentanti politici.

Un presidente della Repubblica serio avrebbe dovuto semplicemente rispondere alla signora con un paio di righe: “Cara signora, io non ci posso fare niente. Se la prenda con chi pretende di rappresentarla politicamente, ma non riesce nemmeno a mettere assieme un numero congruo di firme valide. Cordiali saluti”. E invece no. Napolitano accoglie l'appello disperato della signora Varenna e spiega: “Erano in gioco due interessi o "beni" entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme e delle procedure previste dalla legge e il diritto dei cittadini di scegliere col voto tra programmi e schieramenti alternativi”.

E no, caro Napolitano. Questa è disonestà intellettuale. Nessuno ha mai negato a nessuno il diritto a votare. Tutti i vari partiti politici sono stati messi nelle condizioni di partecipare alle elezioni. Tutti hanno avuto il tempo necessario per raccogliere tutte le firme possibili e immaginabili. Poi se qualcuno, non avendo rispettato le regole, è stato giustamente squalificato dalla competizione, questa è un'altra storia. Come dire: sono passato col rosso andando al lavoro perché ero in ritardo. Sono in gioco due interessi entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme del codice della strada e il diritto dei cittadini di andare a lavorare. Oppure: sono stato bocciato all'esame, perché invece di studiare sono andato a fare la settimana bianca. Sono in gioco due interessi entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme scolastiche e il diritto dei cittadini a prendere un periodo di ferie. Oppure: ho accoltellato il mio vicino perché ascoltava la televisione a volume troppo alto. Sono in gioco due interessi entrambi meritevoli di tutela: il rispetto delle norme del codice penale e il diritto dei cittadini a dormire senza essere disturbati.

Ma sicuramente il Presidente non sarebbe in accordo con questi esempi paradossali (paradossali fino a un certo punto). Si inalbererebbe e mi rinfaccerebbe di essere un ignorante del diritto che non ha capito niente. Assolutamente niente. Come ha fatto con quel cittadino per la strada. Perché questo è un caso eccezionale. Stava per essere esclusa dalla competizione elettorale “la lista del principale partito di governo”! Capito? Il principale partito! E questo, dice il Presidente, non era “sostenibile”. Mi sono soffermato a lungo per cercare di comprendere cosa intendesse Napolitano con questo termine oscuro, “sostenibile”. E me lo sono immaginato mentre tentava di trovarne uno che potesse andare. Non è “possibile”, “pensabile”, “immaginabile”, “accettabile”, “ammissibile”, “proponibile”. No. Troppo sfacciato. Devo trovare un termine più soave. Un termine ambiguo, che si presti a varie interpretazioni, o ancora meglio, uno che non vuol dire niente, ma che mi permette di concludere la frase senza dare troppo nell'occhio. Sostenibile. Chissà da dove gli è venuto fuori. Perché “sostenibile”, davvero, in quella farse, proprio non c'entra. “Sostenibile” nel senso che non si poteva sostenere, ovvero asserire, affermare? No. Non ha senso. “Sostenibile” nel senso che non si poteva sostenere, ovvero sorreggere, sopportare? Mah. Con uno sforzo d'immaginazione, forse. “Sostenibile” nel senso che non si poteva sostenere, ovvero, avallare, appoggiare? Boh. In ogni caso, è confortante sapere che la decisione di escludere il principale partito politico di governo, anche se a norma di legge, non era “sostenibile”. E tanto basta. Sempre una parola chiara, quando serve. Come è confortante sapere che il Capo dello Stato, novello Don Abbondio, quando c'è da scegliere tra il salvaguardare il rispetto della legge e il tutelare i diritti del più forte (il principale partito di governo), scelga, senza farsi troppi problemi, di far cartastraccia della legge e di dar ragione al più forte.

Io credo che Napolitano nemmeno si sia reso conto della gravità delle sue parole, prima ancora che del suo comportamento. Perché qui non si tratta di criticare il fatto che lui abbia firmato con la velocità di un segugio un decreto legge vergognoso presentato dal principale partito di governo per favorire il principale partito di governo. No, questo non c'entra. Anzi, è un dettaglio perfino trascurabile. Ciò che è gravissimo e che rende, secondo me, le parole di Napolitano eversive e, ripeto, un atto di alto tradimento del sistema democratico che lui stesso invece dovrebbe rappresentare, è il fatto che Napolitano abbia confessato senza alcun timore di aver appoggiato, suggerito, favorito e fortemente sostenuto questo decreto legge “interpretativo”. Questo sì è stato “sostenibile”. Dice senza alcun pudore: “I tempi si erano a tal punto ristretti - dopo i già intervenuti pronunciamenti delle Corti di appello di Roma e Milano - che quel provvedimento non poteva che essere un decreto legge”. Tradotto: bisognava fare in fretta ad aggirare la legge. Non si poteva perdere altro tempo.

Si tratta, per carità, di una vicenda penosa e misera, nella sostanza. Alla fine, chissenefrega se Formigoni e la Polverini sono stati riammessi. Che vincano pure. Non sarà sicuramente l'esclusione della Polverini a cambiare le sorti del paese. Ma la forma. La forma con cui questo scempio è stato compiuto è indecente. Si tratta di un precedente pericolosissimo. La legge considerata come un'inutile cavillo e piegata dunque all'interesse del più forte. Con l'avallo del presidente della Repubblica.

Il quale avrebbe solo una cosa da fare: rendersi conto dell'enormità compiuta, chiedere scusa agli Italiani per aver calato le braghe in tutti questi anni di fronte a Berlusconi in ogni quando e in ogni dove e rassegnare immediate dimissioni. Perché questa è una ferita al sistema democratico che difficilmente sarà cancellabile. Una ferita che, come molti hanno sottolineato, assomiglia tanto alla firma che il re Vittorio Emanuele III appose legittimando la marcia su Roma di Mussolini. Avrebbe potuto opporsi in nome della legge. Non lo fece per andare incontro alla volontà del popolo. Ora, poiché, come si sa, “la storia si ripete sempre due volte, la prima in forma di tragedia, la seconda in forma di farsa”, le due situazioni non sono nemmeno paragonabili, nella sostanza. Ma la forma. La forma è paurosamente simile.

Sono tempi bui. Mai nella storia repubblicana (a parte il ventennio) il diritto era stato calpestato con tanta protervia e impudenza. Sono segnali bruttissimi, che non lasciano presagire nulla di buono. D'ora in poi, chiunque potrà avere il diritto di svegliarsi da un giorno con l'altro e presentare un decreto legge per legalizzare l'illegalità in nome di qualche fantomatico diritto. Chiunque potrà sentirsi autorizzato a non pagare la multa pur essendo passato col rosso, a pretendere di essere promosso pur non avendo studiato, a dormire tranquillamente pur avendo accoltellato il vicino. Sempre che, prima, s'intende, abbia avuto la ventura di diventare il presidente del maggior partito di governo.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Sapevo del patto tra Stato e Provenzano dal 1996 18 Feb 2010 10:55 AM (15 years ago)


Parla Alfonso Sabella, il magistrato "stritolato dalla trattativa", come lo definì Marco Travaglio in un'intervista di qualche tempo fa su Il Fatto Quotidiano. Parla alla presentazione a Roma del libro "Il Patto" di Nicola Biondo e Sigrifdo Ranucci (1 febbraio 2010). Il libro che per la prima volta si addentra nelle carte del processo Mori-Obinu e racconta la storia incredibile di Luigi Ilardo, mafioso della famiglia di Piddu Madonia, confidente segreto del colonnello Michele Riccio, infiltrato in Cosa Nostra con il preciso obiettivo di condurre i Carabinieri alla cattura di Bernardo Provenzano, il capo indiscusso di Cosa Nostra dopo la cattura di Salvatore Riina. Quando Ilardo però, il 30 ottobre 1995, li porterà proprio all'uscio della masseria di Provenzano, dai vertici del Ros arriverà l'ordine di fermarsi e non intervenire.

Oggi, i verbali di Massimo Ciancimino rimettono insieme i pezzi mancanti del puzzle e spiegano il perché di questa come di un'altra serie impressionante di coincidenze inquietanti. Parla Sabella e dice cose pesantissime e inedite, ma con la calma e la pacatezza che lo cottraddistinguono. Dice che in realtà anche prima delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino si poteva sapere come erano andate davvero le cose. Lui e i suoi colleghi di Palermo, all'epoca delle indagini successive alle stragi, già avevano capito tutto. Ma non c'erano nè le condizioni giudiziarie, nè quelle politiche per poter giungere alla verità. Eppure era tutto troppo chiaro. Ora, dice Sabella, dopo 17 anni, sembrano esserci finalmente le condizioni giudiziarie. Quelle politiche, purtroppo, ancora no. E per quelle, si spera di non dover attendere altri 17 anni.

Di seguito i passi salienti del suo intervento.


Io sapevo

Quello che adesso sta emergendo, io come altri colleghi della procura di Palermo lo sapevamo già almeno dieci anni fa. Facciamo dodici. (…) Il patto non è stato uno, i patti sono stati tanti. Il primo aveva avuto dei tentativi di accordo, dei tentativi di trattativa, dei patti conclusi, dei patti che non hanno avuto buon esito e così si è andati avanti, almeno per quel che mi riguarda, a cavallo tra le stragi di Capaci e Via D'Amelio, probabilmente già prima della strage di Capaci, fino ai giorni nostri. (...) Queste cose erano già uscite nel lontano 1996, dopo la cattura di Giovanni Brusca. Brusca io l'ho interrogato tantissime volte, più di un centinaio, sono quello che l'ha catturato, quello che l'ha convinto a collaborare, quello che ha raccolto le sue dichiarazioni, ero in qualche modo il suo magistrato di riferimento. (…) Parlando con me mi ha raccontato del papello. Quello che adesso viene fuori dal papello, per esempio, il primo punto del papello, la revisione del maxiprocesso, non avevo bisogno di saperlo dal papello, perché lo sapevo già dal '97 quando Brusca mi aveva detto che l'unica cosa che interessava a Salvatore Riina era la revisione del maxiprocesso. Del resto, i mafiosi non hanno un'etica, (…) gli interessa soltanto due cose: potere e denaro. Denaro e potere. Non hanno nessun altro interesse. (…) E chi decide di trattare con questa gente si deve assumere le proprie responsabilità. Probabilmente adesso ci sono le condizioni giudiziarie perché si faccia luce su queste cose. Ma non ci sono certamente le condizioni politiche. A questo punto dicono: “Tu sei un magistrato, sei soggetto solo alla legge”. Secondo una certa equazione che ho visto all'inaugurazione dell'anno giudiziario, il magistrato è soggetto alla legge, le leggi le fa il parlamento, il magistrato è soggetto al parlamento. Del sillogismo mi sfugge qualche pezzo, probabilmente c'è qualcosa della logica che non riesco a comprendere bene, però questo è il sillogismo del nostro ministro. Fin quando un magistrato viene messo nelle condizioni di svolgere il suo lavoro e di essere giudice solo soggetto alla legge, le cose stanno in un certo modo, quando questo non si verifica, probabilmente le cose vanno in un modo un pochino diverso...

Paolo Borsellino era l'ostacolo principale alla trattativa

Ci sono stati punti oscuri. Io continuo a battere sulla mancata perquisizione del covo di Salvatore Riina. (…) Io con le cose che ho trovato in tasca a Bagarella ci ho arrestato 200 persone. Mi chiedo: che cosa si poteva fare con quello che avremmo trovato a casa di Salvatore Riina? Stiamo parlando del capo dei capi di Cosa Nostra. Questa è una cosa che nessuno sa, una chicca. La certezza che quella casa fosse la casa di Riina si è avuta soltanto per caso, perché non c'era alcuna prova, avevano imbiancato tutto, con i Carabinieri del Ros che avevano assicurato che avrebbero controllato quel covo con le telecamere. La certezza si è avuta soltanto perché in un battiscopa era finito un frammento di una lettera che Concetta Riina, la figlia di Riina, aveva scritto a una compagna di scuola. Soltanto per caso. E' l'unica cosa che si è trovata. (…) Non è una cosa da sottovalutare. Perché secondo me è la chiave di lettura del patto che è raccontato in questo libro. Ovvero un patto che viene stipulato, concluso, sottoscritto. Mi assumo le mie responsabilità di quello che dico: patto da cui verosimilmente si determina la morte di Paolo Borsellino, perché Paolo Borsellino molto probabilmente viene ucciso a seguito di questo patto.

Ricapitoliamo. Viene ammazzato Giovanni Falcone, c'è un movente mafioso fortissimo per la strage di Capaci. Falcone è l'uomo che ha messo in ginocchio Cosa Nostra, che l'ha processata, che l'ha portata sul banco degli imputati, l'ha fatta finalmente condannare (sentenza del dicembre dell'86). Il 30 gennaio 1992 (perché le date sono importantissime) viene confermata dalla Cassazione la sentenza di condanna all'ergastolo per la cupola di Cosa Nostra. (…) Al 30 gennaio c'è la sentenza. Falcone in quel momento è al Ministero e viene accusato da Cosa Nostra di aver brigato, di aver fatto in modo che quel processo non finisse al collegio della prima sezione della Cassazione presieduta da Corrado Carnevale. Il 12 di marzo viene ammazzato Salvo Lima. Salvo Lima è l'uomo, secondo tutti i collaboratori di giustizia, ancorché non sia mai stato processato e condannato per questo, che era il referente politico di una determinata corrente della DC in Sicilia per conto di Cosa Nostra. Ovvero era il canale tra la politica e Cosa Nostra. A questo punto è normale che i nostri Servizi si diano da fare. Quindi io credo che i movimenti siano iniziati già prima della strage di Capaci. E' soltanto un'ipotesi e null'altro. Sta di fatto che il 23 di maggio viene ammazzato Giovanni Falcone. Riina deve dire a Cosa Nostra che “questo cornuto” è morto, Cosa Nostra si è vendicata. Si prendono i classici due piccioni con una fava secondo i collaboratori di giustizia, perché Falcone viene ammazzato alla vigilia delle elezioni del presidente delle repubblica. In quel momento sapete benissimo chi era il candidato alla presidenza della repubblica (Giulio Andreotti, n.d.a.), persona che così, a seguito della strage di Capaci, non viene proposta e viene eletto poi un altro presidente della repubblica (Oscar Luigi Scalfaro, n.d.a.).

Tinebra ha creduto sempre a Scarantino, io mai

A questo punto ci sono quegli incontri di cui sta parlando Massimo Ciancimino. C'è un pezzo dello stato che va da Massimo Ciancimino e chiede: “Che cosa volete per evitare queste stragi?” Il messaggio a questo punto è arrivato chiaro allo stato. Noi stiamo eliminando tutti i nemici e gli ex-amici, quelli che ci hanno garantito delle cose che poi non ci hanno più dato. A questo punto arriva il papello. Il primo punto del papello è la revisione del maxiprocesso. (…) Ora abbiamo una vicenda inquietante. Il primo luglio del 1992 Paolo Borsellino viene convocato d'urgenza al Viminale dovi si incontra con il ministro dell'Interno di quel momento (Nicola Mancino, n.d.a.). Il ministro dell'Interno di quel momento negherà sempre di avere avuto quell'incontro, incontro confermato dall'altro procuratore aggiunto di Palermo, il dottor Aliquò, di cui si trova traccia nell'agenda di Paolo Borsellino. Quella trovata, perché una poi è stata fatta sparire e non s'è mai trovata, l'agenda rossa. Su quella grigia annotava dettagliatamente “Ore 18:00, Viminale, Mancino”. Che cosa succede in quell'incontro? Non lo sappiamo. Possiamo fare un'ipotesi. Allora, se al primo punto del papello c'è la revisione del maxiprocesso, chi è l'ostacolo principale alla revisione del maxiprocesso? Il giudice che insieme a Giovanni Falcone ha firmato l'ordinanza-sentenza di quel maxiprocesso. Ha un nome e un cognome e si chiama Paolo Borsellino. Ipotizziamo che a Borsellino venga proposto di non protestare tanto in caso di una revisione del maxiprocesso e Paolo si rifiuti, che cosa succede? Paolo muore. (...)

Non ho mai creduto che Pietro Aglieri fosse il responsabile dell strage di Via D'Amelio. Pietro Aglieri è stato condannato sulla base delle dichiarazioni di Scarantino. Scarantino era il pentito di cui mi occupavo io a Palermo. E' stato sempre dichiarato inattendibile, non l'ho mai utlizzato nemmeno per gli omicidi che confessava. Il dottor Tinebra l'ha utilizzato fino in fondo fino ad ottenere delle sentenze passate in giudicato. Io lo dicevo su una base logica. La strage di Via D'Amelio è talmente delicata che se l'ha fatta Riina, la doveva commissionare per forza ai suoi uomini più fidati, ovvero ai fratelli Graviano. Non poteva commissionarla a un uomo di Provenzano che è Pietro Aglieri. (...)

La mancata perquisizione del covo di Riina è la chiave di tutto

Paolo muore: due piccioni con una fava. Da un lato si alza il prezzo della trattativa dalla parte di Salvatore Riina, dall'altra parte si elimina l'ostacolo alla revisione del maxiprocesso. Perchè a Riina interessavo solo quello. Questa è solo un'ipotesi però vi assicuro che ci sono tanti elementi che vanno in quella direzione. E la prova poi ne è in quello che è raccontato esattamente in questo libro. Il Patto. Il patto (e questo lo dico invece senza il minimo problema) che invece è stato stipulato a quel punto tra lo stato e un'altra parte di Cosa Nostra, che non era più Salvatore Riina, ma la parte “moderata” che si chiama Bernardo Provenzano. Perché quello da cui bisogna partire è che Cosa Nostra non è un monolite. Cosa Nostra non era unitaria, Cosa Nostra già in quel momento aveva delle spaccature. (…) Il patto prevede questo. Da un lato Provenzano garantisce la cattura di Salvatore Riina (ho più di un elemento per dire che Salvatore Riina è stato venduto da Provenzano e non me lo deve venire a dire Ciancimno adesso: lo sapevo già). (…) Provenzano garantisce che non ci sarebbero state più stragi e infatti non ce ne sono state più, vengono fatte nel '93 dagli uomini di Bagarella, ovvero di Riina, fuori dalla Sicilia. Dall'altro lato ha avuto garantita l'impunità. Aveva avuta garantita la sua latitanza, come dimostra la vicenda Ilardo in maniera inequivocabile: una parte dell'Arma dei Carabinieri ha più che verosimilmente protetto e tutelato la latitanza di Bernardo Provenzano.

Ma perché Provenzano fosse in grado di mantenere questo patto, questa è la novità di quello che sto dicendo, probabilmente una delle richieste era che venisse consegnato Riina, ma non l'associazione. Anzi. Che l'intera associazione mafiosa dovesse passare nelle mani di Bernardo Provenzano. E' questa la ragione per cui a mio avviso non si perquisisce la casa di Riina. Perché nell'accordo Provenzano vende Riina, ma non vende l'associazione mafiosa. Tutto questo con il sigillo del nostro stato. L'impresa mafia. (...) Balduccio Di Maggio sarebbe quello che ha portato i Carabinieri a casa di Riina. Sappiamo benissimo (adesso Ciancimino lo dice) ma lo sapevamo già che non era così, perché i Carabinieri erano sul covo di Riina già prima che Di Maggio venisse arrestato, quindi figuriamoci... Se la magistratura di Palermo fosse entrata nel covo di Riina avrebbe non dico distrutto, ma avrebbe dato un colpo, se non mortale, quasi, all'associazione mafiosa.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Quando eravamo giovani 5 Feb 2010 7:48 AM (15 years ago)

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Tutte le "minchiate" di Dell'Utri 9 Dec 2009 3:45 AM (15 years ago)



Le ultime apparizioni televisive di Marcello Dell'Utri risalivano a tempi immemori. Negli ultimi giorni, invece, il senatore del Pdl è apparso prima nella trasmissione In mezz'ora, condotta da Lucia Annunziata, e poi, l'altra sera, ha dialogato negli studi di Porta a Porta sotto lo sguardo vigile di Bruno Vespa. Per non parlare di tutta la marea di dichiarazioni rilasciate a stampa, radio e giornalisti, assetati di carpire il Dell'Utri-pensiero. Perché? L'alter-ego di Silvio Berlusconi è un uomo particolarmente avveduto e, al contrario del presidente del consiglio come spiegherà lui stesso, sa trattenere le emozioni e centellinare le parole. Quando parla, lo fa per necessità. E se parla, c'è sempre un motivo. Questa ritrovata ed incontenibile esigenza affabulatoria deriva da un preciso stato di agitazione ed insofferenza, paura e turbamento, per una situazione che gli sta esplodendo tra le mani in tutta la sua gravità. Parla perché sente che gli sta sfuggendo di mano qualcosa, come mai era successo in passato.

Dopo una condanna in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa inflittagli nel 2004 dal Tribunale di Palermo, presieduto tra l'altro da quel Leonardo Guarnotta che insieme con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello aveva costituito il mitico pool antimafia sotto la guida di Rocco Chinnici, Dell'Utri ha sostanzialmente potuto godere per cinque anni del silenzio ermetico ed omertoso della stampa tutta. Nessuno, a parte la sparuta eccezione dei soliti noti Marco Travaglio e Peter Gomez, ha osato proferire una sola parola su quella sentenza. Né tanto meno, si capisce, raccontare anche solo uno degli innumerevoli episodi che sono stati ritenuti provati dal Tribunale e che hanno inchiodato il senatore Dell'Utri alle sue responsabilità. Episodi e responsabilità che, come spesso accade sui media italiani, scolorano e si dissolvono, dimenticati, cancellati e coperti accuratamente dalle opinioni. Meglio se le opinioni degli stessi imputati. Il risultato grottesco è che lo spettatore è messo nelle condizioni di assistere in tv a processi sommari, in cui si inscena una difesa accalorata contro accuse di cui lo spettatore ignora completamente i contenuti.

Avviene allora per esempio che, di fronte ad una disarmata Lucia Annunziata che ammette di “saperne molto poco” della sentenza di primo grado, Dell'Utri possa esibirsi in uno sproloquio in cui dichiara di essere “meravigliato, angosciato, per quanto siano delle cose allucinanti e assurde che comunque colpiscono nello spirito”. Definisce le accuse a lui rivolte “delle assolute falsità”, “aria fritta”, “un caso montato dalla stampa”. Figurarsi: la stessa stampa che l'ha coperto per cinque anni senza fiatare e che ha lasciato che scivolasse via come fosse un'inezia lo scandalo di un presidente del consiglio che il Tribunale di Palermo ha dimostrato aver avuto un braccio destro che per trent'anni ha intrattenuto rapporti continui e ripetuti con i più grandi boss di Cosa Nostra. Rapporti talmente forti e saldi che hanno saputo superare generazioni di mafiosi e resistere a guerre di mafia e stravolgimenti al vertice della cupola, da Stefano Bontade a Totò Riina fino a Bernardo Provenzano.

Succede così che, di fronte ad una Lucia Annunziata che non vuole addentrarsi nei dettagli del processo e che, per non sbagliare, evita accuratamente ogni tipo di domanda sui fatti, Dell'Utri possa affermare senza pericolo di smentita che bisogna “parlare seriamente di queste cose. Mi verrebbe da ridere se non fossero gravi. Cioè veramente, sono cose che non esistono. Sono delle falsità. Una volta queste si chiamavano calunnie e venivano rinviati a giudizio chi pronunciava queste calunnie. E quindi non esiste. E' una cosa allucinante. E' difficile difendersi di fronte a queste invenzioni. Qualunque persona non potrebbe difendersi. Contro queste sceneggiature non c'è difesa”.

Peccato, perché Lucia Annunziata, se solo avesse letto qualcosa di quella sentenza, avrebbe potuto replicare che, fino a prova contraria, l'unico che è stato rinviato a giudizio per calunnia aggravata è proprio il sentore Dell'Utri. Sì perché i giudici del Tribunale di Palermo hanno anche dedicato un ampio stralcio della sentenza a spiegare come Dell'Utri abbia tentato di comprare le false accuse di un tal Cosimo Cirfeta, soggetto grottesco e tossicodipendente, che si era inventato l'esistenza di un complotto ai danni di Berlusconi e Dell'Utri ordito da tre pentiti, Francesco Onorato, Franceso Di Carlo e Giuseppe Guglielmini. L'unica strategia imbastita dalla difesa si è infatti sempre basata sulla delegittimazione di tutti i pentiti che hanno parlato delle imbarazzanti relazioni del senatore con la mafia siciliana. Una delegittimazione in molti casi supportata solamente da vere e proprie calunnie, tanto è vero che ancora adesso il senatore è imputato in un processo parallelo. Quanto al fatto che sarebbe molto difficile difendersi da assolute invenzioni, risulta molto difficile capirne il motivo. Se sono solo invenzioni, Dell'Utri le avrebbe potute smantellare con facilità. Peccato che non solo non ci abbia nemmeno provato, ma abbia anzi addirittura pagato un falso testimone per calunniare i propri accusatori. Peggio che un ammissione di colpa.

Capitolo Spatuzza. E' bene tenere a mente che la deposizione del collaboratore, in quel momento, non era ancora avvenuta. Lucia Annunziata vi si addentra con tutta la cautela del caso, cita solamente le voci apparse sui giornali, ruota attorno al giochino “è attendibile”-“non è attendibile”. Dell'Utri prende la palla al balzo per dire che “solamente pensare quello che viene adombrato dalle procure è già un fatto di per sé gravissimo e inconcepibile in un paese civile”. Si riferisce al sospetto che dietro alle stragi del '93 ci sia un accordo tra Cosa Nostra e il duo Dell'Utri-Berlusconi. Peccato che ci siano già state in passato fior fior di procure (Firenze e Caltanissetta) che non solo hanno adombrato, ma hanno indagato a fondo su Alfa e Beta, Autore1 e Autore2, cioè il duo sopra citato. E il sospetto iniziale, durante il corso di quelle indagini, non solo non è svanito, ma ha incrementato la sua plausibilità. Così è scritto nel decreto di archiviazione con cui la procura di Firenze ha congelato la posizione degli indagati. Ciò che è gravissimo e inconcepibile in un paese civile è che un presidente del consiglio e il suo braccio destro, inventore di Forza Italia e presidente di Publitalia, polmone finanziario di Fininvest, possano sedere in Parlamento con ombre così inquietanti che pendono sulle loro teste.

Per dimostrare che Spatuzza è inattendibile, Dell'Utri ha un argomento inoppugnabile: “Scusi, ma prendiamo sul serio Spatuzza? Ma guardi, mi spiace parlare male di Spatuzza anche se è una persona che ha sciolto nell'acido delle persone e dei bambini, mi spiace parlarne. Ma come si fa? Tanto non è credibile di per sé, per quello che dice. E' smentito anche dagli stessi Graviano. Se noi prendiamo sul serio Spatuzza, andiamo a casa ed è inutile che stiamo a parlare”. Tradotto: Spatuzza è inattendibile perché lo è. Punto. Cosa stiamo qui a discutere? Purtroppo per lui la cosa non è così semplice, visto che, su tutto il resto, sembra che Spatuzza abbia raccontato la verità. Ha fatto riaprire le indagini sulle stragi del '93 e probabilmente porterà alla revisione di processi sulla strage di Via D'Amelio, ormai da tempo passati in giudicato con il timbro della Cassazione. E scusate se è poco.

Il secondo argomento è più stringente: i Graviano avrebbero detto in un interrogatorio che Spatuzza non aveva alcuna importanza. Cosa un po' difficile da credere, se si pensa che a lui i Graviano hanno affidato l'organizzazione e l'esecuzione di tutte le stragi da Via D'Amelio in poi. In realtà i Graviano hanno detto una cosa un po' diversa. Hanno fatto sapere di rispettare la scelta di collaborazione da parte di Spatuzza, fatto già di per sé anomalo, e, ai magistrati che chiedevano maggiori informazioni, avrebbero risposto: “Ma cosa volete che ne sappia Spatuzza? Era solo un imbianchino”. La dichiarazione, ben lungi dallo smontare la deposizione di Spatuzza, lancia invece un chiaro messaggio dal tipico sapore mafioso. Se si vuole sapere delle collusioni ad alti livelli politici, non bisogna certo chiedere a Spatuzza, bensì, è sottinteso, a loro. Sempre che si decidano, prima o poi, a parlare. Lo faranno questo venerdì?

Lucia Annunziata prova a carpire i pensieri del senatore. Cosa si aspetta che dirà Spatuzza? “Spatuzza – spiega Dell'Utri - dirà quello che ha già evocato, degli accordi con la mafia da parte di... dovrei essere io, perché ero il referente siciliano... che non esiste, non possono esistere, perché non ci sono mai stati, né io mi sono mai occupato di questo. Figuriamoci! Addirittura si risale al '92, anni in cui si lavorava, si pensava solo a lavorare e a fatturare”.

Figuriamoci se a quel tempo Dell'Utri e Berlusconi pensavano a certe cose! Loro lavoravano sodo e non avevano tempo da dedicare alla mafia! Sull'argomento, c'è un passo molto interessante della sentenza di primo grado che spiega come ciò che Dell'Utri liquida con le parole “lavorare” e “fatturare” nascondesse invece flussi di denaro sporco dalle casse della Fininvest a quelle di Totò Riina. In cambio di cosa? Della protezione che Cosa Nostra dava alle antenne di Canale5 posizionate sul monte Pellegrino a Palermo. Giovan Battista Ferrante, per esempio, mafioso della famiglia di San Lorenzo, dichiara di non conoscere Marcello Dell'Utri, ma riferisce che Salvatore Biondino, autista personale di Totò Riina, riceveva periodicamente (cadenza semestrale o annuale) somme di denaro provenienti da Canale5 per tramite di Raffaele Ganci. Lo sa perché in alcune occasioni era presente lui stesso a queste consegne. Ricorda distintamente la volta in cui vennero fatti pervenire nelle tasche dell'autista di Riina 5 milioni di lire. Denaro estorto? Manco per sogno: regalo spontaneo per gentile concessione della Fininvest. Ferrante è certo che tutte queste somme di denaro (richieste e non) arrivavano almeno dal 1988 ed erano proseguite almeno fino al 1992. Proprio il periodo in cui Dell'Utri e Berlusconi pensavano solo a “lavorare e fatturare”.

Ferrante però non si limita a parlare in astratto. Indica persone e luoghi. Grazie a una sua segnalazione, vengono ritrovate due rubriche manoscritte, custodite assieme a parecchie armi, appartenenti alla famiglia di San Lorenzo. Queste due rubriche erano aggiornate da Salvatore Biondo, detto "Il lungo", e contengono l'una dei nomi, l'altra dei numeri. E' possibile capire il senso delle due rubriche solo incrociandone i dati. Così facendo si scopre che non è nient'altro che il libro mastro dove vengono annotate le entrate della famiglia di San Lorenzo. Ad un certo punto della prima rubrica si legge: "CAN 5 NUMERO 8". A cui fa riferimento, al numero 8, sulla seconda rubrica: "REGALO 990, 5000". E' la prova inconfutabile di quanto afferma Ferrante: nel 1990 Canale 5 ha versato nelle tasche di Cosa Nostra 5.000.000 di lire a titolo di "regalo". A corroborare la versione di Ferrante c'è anche la dichiarazione del boss Galatolo, il quale si lamenta del fatto che fosse l'unico a non percepire somme di denaro da parte di Canale5: questa emittente pagava regolarmente "U cuirtu", cioè Riina, e i Madonia, ma non lui, che pur aveva sotto il suo controllo la zona palermitana di Acquasanta, in cui rientrava anche il monte Pellegrino dove erano installati i ripetitori di Canale 5. Come dire: e lui chi era, il più scemo di tutti?

Ma c'è un altro pentito eccellente che su questa vicenda ha qualcosa da dire. Si tratta di Salvatore Cancemi. Egli conferma che fino a pochi mesi prima della strage di Capaci (23 maggio 1992) Berlusconi ancora versava somme di denaro a Cosa Nostra per le "faccende delle antenne", una sorta di contributo all'organizzazione mafiosa di Totò Riina. Cancemi afferma di essere stato presente varie volte alla consegna di queste somme di denaro presso la macelleria di Raffaele Ganci: le mazzette erano da 50 milioni di lire, legate con un elastico. La somma annuale, secondo Cancemi, era di 200 milioni di lire. Era sempre il periodo in cui Dell'Utri e Berlusconi pensavano solo a “lavorare e fatturare”.

Di tutto questo l'Annunziata non sa o non dice nulla. E allora Dell'Utri chiude la questione Spatuzza da par suo, con un'affermazione inoppugnabile: “E' assurdo che ci siano queste indagini. In ogni caso, le indagini si facciano, ma si facciano nelle direzioni giuste. Le indagini ci sono, ma non sono arrivati al punto da indagare. E' quello che mi sembra anche abbastanza giusto. Sarebbe giusto, però io non lo so”. Le indagini ci sono, ma in realtà non ci sono, e se anche ci fossero sarebbe assurdo che ci siano, ma è giusto che si facciano e comunque io non so se le stiano facendo. Non fa una piega. L'Annunziata, spiazzata da tanto argomentare, annuisce, non replica e, forse per pietà, passa oltre. Passa cioè a quello che nell'immaginario collettivo è diventata l'unica prova esistente della collusione tra Dell'Utri e la mafia: lo “stalliere” Vittorio Mangano.

E' il cavallo di battaglia di Dell'Utri. Ogni volta che sente nominare Mangano, gli si illuminano gli occhi, ripensa ai bei tempi passati e indugia sulla solita storiella del fattore che curava i cavalli. Vogliamo rassicurare l'Annunziata: anche rimuovendo il nome di Vittorio Mangano dalla storia di Dell'Utri, la montagna di prove a carico del senatore rimane comunque schiacciante. Mangano rappresenta solo l'incipit di tutta la vicenda, che si è poi sviluppata in gran parte in modo autonomo rispetto alla storia criminale dello stesso Mangano. In ogni caso Dell'Utri non può esimersi per l'ennesima volta dal raccontare la sua favoletta: “Mangano era il fattore ad Arcore nel '74, parliamo di 35 anni fa. Ho spiegato bene come è venuto, quanto è stato, che cosa ha fatto. Stop. Il discorso dell'attività di Mangano si è chiuso definitivamente. Poi mi dicono gli accusatori di Palermo: “Però è venuto a Milano e lo incontrava...”. Ma era una persona che era stata un anno con me, che lavorava nella casa, nella villa di Berlusconi, che teneva i campi, i cavalli, eccetera, io non potevo non riceverlo quando veniva. Ma era una persona di cui comunque non si sapeva nulla fino a quel momento. E' venuto fuori dopo, che aveva, diciamo così, odore di mafia. Ma io non lo sapevo”.


E siccome noi siamo più duri di lui, non possiamo esimerci per l'ennesima volta dallo sbugiardare questa accozzaglia di menzogne. Vittorio Mangano è stato chiamato ad Arcore per precisa volontà di Marcello Dell'Utri dopo un incontro avvenuto nella primavera del 1974 negli uffici della Edilnord in via Foro Bonaparte a Milano, dove un giovane Silvio Berlusconi alle prese con la costruzione di Milano2 ricevette una delegazione della cupola di Cosa Nostra, capeggiata da Stefano Bontate, il principe di Villagrazia, l'allora “capo dei capi” della mafia siciliana. I dettagli dell'incontro sono narrati con dovizia di particolari dal pentito Francesco Di Carlo, che a quell'incontro ci ha partecipato di persona. Ricorda tutto, Di Carlo, persino gli abiti che indossava Silvio Berlusconi. Il punto era che Mangano ad Arcore doveva servire da parafulmine: la sua presenza fisica nella villa di Arcore stava ad indicare che Berlusconi era protetto da Cosa Nostra e nessuno doveva osare toccarlo (era il periodo dei sequestri). Ecco spiegato il perché Mangano “accompagnasse” a scuola i figli di Berlusconi. Non era un amorevole baby-sitter: era la scorta offerta gentilmente da Cosa Nostra. Quindi Mangano fu chiamato a Milano proprio perché era mafioso, in virtù, si potrebbe dire, della sua “mafiosità”. Ecco perché tutti gli altri fattori della Brianza non erano sembrati idonei a curare i terreni di Arcore: non godevano di “certe amicizie”.

Ma anche supponendo che il Di Carlo si sia inventato tutto e che Mangano davvero se ne intendesse di terreni e di cavalli (pur avendo il piccolo handicap di aver subito in passato una rovinosa frattura al bacino che gli impediva addirittura di sollevare pesi e di tenere in mano un vanga), suscita incredulità la faccia tosta con cui il senatore ammette di aver poi incontrato Mangano altre volte nel corso degli anni, come se fosse la cosa più normale e naturale del mondo. E perché lo ammette spudoratamente? Semplice, perché non lo può negare. Sono state infatti ritrovate nelle sue agende personali delle annotazioni relative ad incontri con Vittorio Mangano il 2 e il 30 novembre del 1993. Cioè esattamente in concomitanza con gli ultimi preparativi per la discesa in campo di Berlusconi, che avverrà poche settimane dopo, nel gennaio del '94. Ed è davvero sicuro che in quel momento Vittorio Mangano non si sapeva chi fosse? Strano, perché Vittorio Mangano a quel tempo si era già fatto ben dieci anni di carcere, dal 1980 al 1990, ed era stato condannato in via definitiva al maxiprocesso istruito da Falcone e Borsellino. Appena uscito dal carcere aveva ripreso immediatamente in mano le fila del discorso interrotto molti anni prima, si era fatto strada all'interno dalla famiglia mafiosa di Palermo-Centro-Porta Nuova fino a diventarne reggente quando Salvatore Cancemi, il 22 luglio del 1993, si consegnerà spontaneamente ai Carabinieri. E' il coronamento di una lunga e gloriosa carriera criminale.

Dunque, quando Dell'Utri incontra per ben due volte Vittorio Mangano nel novembre del 1993, Mangano è uno dei boss più potenti di Cosa Nostra, fa parte della cupola e regge una delle famiglie più importanti di Palermo. E' credibile che Dell'Utri affermi che non era possibile per lui rifiutarsi di incontrarlo? Una persona che a suo dire non vedeva più da quasi vent'anni e che aveva speso metà di quegli anni in carcere e l'altra metà a trafficare droga, fare sequestri e mettere bombe proprio nelle ville di Berlusconi? E' credibile pensare, come dice Dell'Utri, che Mangano gli parlasse, in quegli incontri, solamente dei suoi problemi di salute? No, non è credibile. Ed è vergognoso che un senatore della repubblica italiana non sappia dare una spiegazione più decente di frequentazioni tanto imbarazzanti. Peggio che un'ammissione di colpa.

Il discorso termina con la solita apologia del comportamento eroico di Mangano: “Sì, lo ripeto. E' stato, il suo comportamento, eroico. Io non so se avrei fatto lo stesso di quello che ha fatto lui. Perché in carcere, ammalato, invitato a parlare di Berlusconi e di me in maniera ovviamente non positiva e invitato quindi poi ad andare a casa subito dopo, ha detto: - Io non ho nulla da dire, per me sono delle persone bravissime che mi hanno fatto del bene perché mi hanno dato lavoro...-” Parole ancora una volta indegne per un rappresentante del popolo italiano: l'omertà assunta ad eroismo. Ed è giunta una buona volta l'ora che Dell'Utri ci spieghi in base a cosa può sostenere che Mangano abbia subito pressioni per testimoniare contro di lui. Ha delle prove? Se le ha, le porti. Se non le ha, stia zitto ed eviti di infangare la memoria di chi eroe lo è stato per davvero.

A questo punto il discorso si sposta su argomenti più generici. Quale sarà la linea difensiva del senatore? Dell'Utri, sempre molto lucido, spiega: “La linea di difesa sarà che la verità non c'è, non esiste. La linea di difesa è questa. Segnatevi questa frase: “La verità non esiste”. E smettetela di cercarla, perché non c'è. Parola di un senatore.

Continua poi in uno sproloquio che diventa surreale: “Di fronte a quello che dice: - L'ho visto al ristorante tale, l'ho visto al ristorante tizio, si è incontrato... l'ho sentito dire...- ... ma mi porti le persone che mi hanno visto che possono testimoniare qualcosa! Qui non c'è nulla che viene veramente testimoniato!” Ah no? E Di Carlo che l'ha visto incontrarsi con Bontade negli uffici della Edilnord? E Di Carlo che l'ha visto al matrimonio di Jimmy Fauci a Londra a dialogare inseme a Mimmo Teresi, esponente di spicco della famiglia mafiosa di Santa Maria del Gesù, che gli chiedeva di tenersi pronto per offrire copertura alla latitanza dello stesso Di Carlo? E Angelo Siino che l'ha visto incontrarsi sempre con Bontade negli uffici dei fratelli Martello mentre discutevano di come riciclare all'estero i capitali sporchi di Cosa Nostra? E Filippo Alberto Rapisarda che l'ha visto con i suoi occhi fare “sacche di soldi” insieme con Bontade e Teresi mentre era al telefono con Silvio Berlusconi? E le intercettazioni ambientali su Carmelo Amato che, parlando con il cognato Salvatore Carollo, svela che esiste un accordo tra Dell'Utri e Cosa Nostra per far eleggere il senatore al parlamento europeo? E le intercettazioni ambientali sul boss di Brancaccio, Giuseppe Guttadauro, che si lamenta del fatto che Dell'Utri dopo essere stato eletto in Europa con i voti della mafia non avrebbe mantenuto gli impegni presi con Cosa Nostra? E la Dia che verso la fine del '98 pedina e intercetta Dell'Utri e scopre che si stava incontrando con un certo Giuseppe Chiofalo agli arresti domiciliari per imbastire la messa in scena del falso complotto dei pentiti ai suoi danni? Ma queste cose l'Annunziata non le sa e, se anche le sapesse, se ne guarda bene dal parlarne. Giusto: non si fanno processi in televisione. Meglio attenersi alla versione dell'imputato.

E poi via con la favoletta del complotto planetario: “Io so che ci sono collegamenti tra pm di diverse procure, che risultano da tanti fatti e da tante cose. Sono organizzati questi pm! Lei conosce Magistratura Democratica? E' così. E' un fatto organizzato. C'è nella parte di sinistra, quello che si dice sempre i poteri occulti, i poteri forti, che non vedono Berlusconi di buon occhio”. E' credibile che esista questa rete dal vago sapore carbonaro di pm che lavorano da Trieste in giù, da 15 anni a questa parte, 24 ore su 24, solo per abbattere il governo Berlusconi (per la verità con scarsi risultati)? E' credibile che ben quattro procure, tutte intere, dal magistrato più insignificante al procuratore capo, aderiscano tutte in blocco alla corrente di centrosinistra di Magistratura Democratica? Come se, tra l'altro, questa corrente fosse un'organizzazione eversiva che neanche la P2? No, non è credibile. Ed è vergognoso che un senatore della repubblica italiana abbia come unico strumento di difesa, contro accuse gravissime e meticolosamente provate, la teoria della persecuzione comunista.

Ed ecco allora che per dimostrare di non aver nulla a che fare con la mafia, Dell'Utri si lancia in una battaglia contro i due pilastri fondamentali dell'antimafia: il reato di concorso esterno, inventato a suo tempo da Falcone e Borsellino per cercare di scardinare quel legame perverso tra mafiosi e fiancheggiatori, e la legge sui pentiti, voluta fortemente dallo stesso Falcone e già stravolta e limitata dal suo precedente governo. “La legge sui pentiti” spiega Dell'utri “va regolamentata”. Peccato che l'Annunziata non gli abbia ricordato che una legge sui pentiti era già stata varata proprio in seguito alla strage di Capaci, 15 anni fa. Una legge che portò dei danni enormi a Cosa Nostra visto che un tempo i mafiosi facevano la fila per parlare con i magistrati. Era una legge che funzionava fin troppo bene e che stava mettendo in ginocchio Cosa Nostra, tanto che la revisione di una tale legge era proprio uno dei punti del papello di Riina. Il precedente governo Berlusconi, venendo incontro a strane esigenze di garantismo, la modificò e mise dei paletti strettissimi che fecero in modo di ridurre praticamente a zero il numero di pentiti in circolazione. Su tutte, la norma per cui un collaboratore ha solo 180 giorno a disposizione per raccontare tutto quello che sa. Ora, siccome per miracolo divino, dopo tanti anni è spuntato dal nulla un nuovo pentito, che evidentemente non era stato previsto, si vorrebbe regolamentare qualcosa che è già ampiamente regolamentato.

Così come sarebbe da regolamentare, anzi da eliminare completamente, il reato di concorso esterno in associazione mafiosa. Spiega infatti Dell'Utri: “Il concorso esterno non è un reato. Il concorso esterno è uguale al reato di lesa maestà: consente di incriminare chiunque non sia criminale. Quindi è una bella arma nelle mani degli avvocati dell'accusa. Va regolamentato. Che cos'è questo concorso esterno? Diciamo che non contano le parole ma i fatti. Allora che ci siano fatti!”. Questa vulgata che si va sempre più diffondendosi sui media secondo cui il concorso esterno non è un reato è quanto di più aberrante possa esistere. Non è accettabile giocare con le parole su temi tanto delicati. Il fatto che nel codice penale non esista un articolo che definisca il reato di concorso esterno non significa che esso non esista. Non si spiegherebbe infatti come decine di illustri personaggi siano stati processati e condannati in Cassazione, primo fra tutti Bruno Contrada. Chiunque conosca un po' di diritto sa che le sentenze della Cassazione “fanno giurisprudenza” e sul concorso esterno ci sono state varie e concordi sentenze della Cassazione. Chiunque spacci il reato di concorso esterno come qualcosa di fumoso non può che essere in mala fede. Il concorso esterno è il grimaldello inventato dai magistrati antimafia per scardinare la collusione mafiosa, per togliere ai pesci di Cosa Nostra l'acqua in cui sguazzano.

Già che c'è, Dell'Utri si lancia anche in un difesa spudorata dell'immunità parlamentare che andrebbe reintrodotta immediatamente: “Anche l'immunità va regolamentata perché i nostri deputati italiani che sono in Europa sono coperti da un'immunità che ha più forza e più valore di quella che c'è nel nostro paese. Quindi penso che almeno farla della stessa forza e della stessa qualità di quella del parlamentare europeo”. Peccato che il senatore non sappia, e l'Annunziata si guarda bene dal farlo notare, che il Protocollo di Bruxelles dell'8 aprile 1965 ha riconosciuto ai parlamentari europei le medesime immunità e prerogative di cui godono gli appartenenti al Parlamento del loro Paese. Cioè sono 40 anni che già esiste ciò che Dell'Utri chiede oggi a gran voce. Strano, tra l'altro, che Dell'Utri non se ne sia accorto, visto che è da tempi immemori che non si registra più un via libera all'autorizzazione a procedere da parte del Parlamento italiano. Valga su tutti l'infamia di un sottosegretario all'Economia, Nicola Cosentino, degno compagno di partito del senatore Dell'Utri, su cui pende un mandato di arresto per concorso esterno in associazione camorrista. Come mai, pur non essendoci oggi un'immunità parlamentare “forte e di valore”, Cosentino è ancora lì al suo posto?

Ed ecco il coupe de theatre finale. L'Annunziata gli offre un assist irresistibile: “Perché il premier semplicemente non si fa processare come ha fatto lei?” Risposta: “Perché il premier è un carattere diverso. Perché ritiene questa un'ingiustizia. La vera ingiustizia è questa: quella di essere accusato semplicemente di cose inesistenti. Cioè Berlusconi ha una mentalità diversa. E' una persona diversa da me. Io l'ho fatto perché non ho potuto fare diversamente. Se avessi potuto fare diversamente, l'avrei fatto. Ma perché deve subire una cosa che ritiene che sia ingiusta?” Ecco, perché? Perché un cittadino che sente di essere innocente deve sottoporsi alla giustizia che lo ritiene colpevole? Perché? Forse perché siamo in uno stato di diritto, signor senatore? Uno stato di diritto dove, se esistono delle prove significative a carico di un soggetto, quel soggetto viene sottoposto a processo, in cui il tale ha il diritto e dovere di difendersi e dimostrare la propria innocenza con tutti i mezzi che la Costituzione gli concede? E' accettabile che un senatore della repubblica italiana si faccia promotore del “grado di giudizio zero”, l'auto-assoluzione? Se io mi ritengo innocente, perché mi devo far processare? No, non è accettabile. E il fatto che Dell'Utri sostenga una tesi tanto aberrante con così tanta sfrontatezza dimostra la sua assoluta inadeguatezza a ricoprire un ruolo istituzionale in un paese dove ancora, per fortuna, vige lo stato di diritto. E' forse il passo più grave di tutta l'intervista. L'elogio dell'impunità. Il ridurre il rispetto della legge ad un mero fatto di “mentalità”, di “carattere”. Sa com'è, io sono fatto così, non mi piace molto farmi processare, cosa posso farci, è il mio carattere, quindi, se posso, evito. Agghiacciante.

E se quindi il rispetto della legge viene ridotta a semplice indole personale, cosa resta a tutela della giustizia? Ma è chiaro: la propria coscienza. Spiega il senatore: “Sono tranquillizzato soltanto dalla mia coscienza”. Buon per lui.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

19 luglio 1992: video inedito 26 Nov 2009 2:48 AM (15 years ago)

19 luglio 1992 video Inedito from 19luglio1992 on Vimeo.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Agenda rossa: tutte le verità occultate 22 Nov 2009 3:17 AM (15 years ago)


Il 17 febbraio 2009 la VI Sezione Penale della Cassazione, presieduta dal dott. Giovanni de Roberto, respinge il ricorso presentato dalla Procura di Caltanissetta contro la decisione del giudice per le indagini preliminari (gup), il dott. Paolo Scotto di Luzio, che aveva stabilito il 'non luogo a procedere' nei confronti del colonnello dei Carabinieri Giovanni Arcangioli, accusato di aver sottratto, il 19 luglio 1992 in via D'Amelio a Palermo, l'agenda rossa del magistrato Paolo Borsellino dalla sua borsa di pelle marrone, con tutta una serie di aggravanti tra cui quella di aver favorito Cosa Nostra. Il 18 marzo 2009 venivano depositate le motivazioni della sentenza della Cassazione, che accoglieva in toto le ragioni del giudice Scotto e poneva così un macigno inamovibile sulle speranze di fare luce su uno degli episodi più inquietanti della storia della repubblica.

La vicenda era iniziata quattro anni prima, il 27 gennaio 2005, quando una fonte riservata aveva segnalato presso lo studio di un fotografo di Palermo l'esistenza di una foto che ritraeva una persona in borghese aggirarsi in via D'Amelio, negli istanti successivi all'esplosione, con una borsa in mano. Una copia della foto viene consegnata agli inquirenti dal fotografo stesso, Paolo Francesco Lannino, il 17 febbraio 2005. La persona ritratta nella foto viene subito individuata nella persona di Giovanni Arcangioli, che viene ascoltato per la prima volta il 5 maggio 2005 dando il via a quattro anni di indagini ed interrogatori, conclusisi nel nulla con il verdetto della Cassazione del febbraio 2009.

E' utile notare come proprio ora, nel momento esatto in cui lo scontro sulla riforma della giustizia è incandescente e le indagini sulle stragi del '92 e sulla presunta trattativa tra stato e mafia stanno entrando nel vivo (portate avanti da ben quattro procure della Repubblica), siano apparse in rete alcune note APCOM che rilanciavano la notizia della decisione della Cassazione, balzata dunque agli onori della cronaca con ben nove mesi di ritardo.

La notizia è di quelle forti: nella borsa del magistrato ucciso, l'agenda rossa non c'era.

Questo è quanto dice la Cassazione, ricalcando le motivazioni presentate dal giudice Scotto per stabilire il proscioglimento di Arcangioli. Motivazioni presentate addirittura il 29 aprile 2008, ovvero un anno e mezzo fa. Oggi, a sorpresa, questa notizia viene riproposta e spacciata come una primizia, come una verità processuale finalmente accertata, che spegnerebbe sul nascere ogni tipo di teoria complottista, tanto cara ai 'professionisti dell'antimafia'. E' forse un modo subdolo per tentare di delegittimare la procura di Caltanissetta, che voleva rinviare a giudizio Arcangioli e che è stata bastonata dalla Cassazione? La stessa procura di Caltanissetta che oggi ha in mano indagini delicatissime sui mandanti occulti? Il sospetto è forte.

E siccome le sentenze della Cassazione non si possono appellare, ma analizzare e criticare ovviamente sì, vogliamo qui mettere in evidenza tutte quelle incongruenze e quelle deduzioni, alcune volte palesemente superficiali, alcune volte (a nostro giudizio) addirittura surreali, che stanno alla base della decisione del giudice Paolo Scotto di Luzio e a cui la VI Sezione Penale della Cassazione, in un paio di paginette, ha dato ragione, senza sollevare alcuna ombra di dubbio.

Ai lettori il giudizio finale sulla ragionevolezza delle nostre osservazioni. In coda al tutto, si potranno trovare i link ai documenti ufficiali.

Cominciamo.

Innanzitutto è necessario sottolineare i casi in cui un gup ha la facoltà di decidere il 'non luogo a procedere'. L'art. 425 del Codice di Procedura Penale al comma 3 stabilisce che uno di questi casi è “anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio”. Tradotto: se il pm non ha un briciolo di prova per far condannare l'imputato. La norma serve ovviamente ad evitare che si celebrino processi inutili, destinati a sicura assoluzione, con conseguente sperpero di tempo e denaro. Secondo il giudice Scotto, questo sarebbe stato proprio il caso di un eventuale processo a carico dell'allora capitano del Ros dei Carabinieri Giovanni Arcangioli. Tra le motivazioni di Scotto si legge infatti: “Sussistono nel caso una serie di elementi che si pongono tra loro in contraddizione insuperabile e tale da far ritenere che il vaglio dibattimentale delle medesime fonti di prova, ascoltate ripetutamente in fase di indagine, più di un decennio dopo lo svolgimento dei fatti e destinate ad ulteriore logorio per il tempo trascorso, non consenta di sostenere adeguatamente l'accusa in giudizio”. Tradotto: le indagini preliminari hanno già detto tutto quello che c'era da dire e un eventuale processo non potrebbe in alcun modo far luce su una vicenda troppo oscura e contraddittoria. Meglio non provarci nemmeno, a far luce. Meglio chiudere tutto in partenza.

Dopo aver presentato tali motivazioni, Scotto passa alla dimostrazione delle stesse.



I FILMATI

Parte dall'analisi di due filmati, quelli che ritraggono per pochi secondi il capitano Arcangioli camminare in via D'Amelio con una borsa di pelle marrone nella mano sinistra, una pettorina azzurra su cui si staglia uno stemma dorato dell'Arma, un marsupio nero attorno alla vita. Sono due frammenti. Il primo inquadra Arcangioli con una borsa in mano, a circa 25 metri dall'esplosione, mentre cammina verso l'uscita di Via D'Amelio. Il secondo lo inquadra a circa 60-70 metri dall'esplosione, sempre con la borsa in mano, in prossimità di via Autonomia Siciliana. L'ipotesi accusatoria è quella che Arcangioli si sia allontanato con la borsa per qualche tempo, si sia appartato per estrarre l'agenda rossa e consegnarla a ignoti o trattenerla per sé, abbia poi riposto la borsa nella macchina del magistrato ucciso, dove sarebbe stata poi raccolta dall'ispettore di polizia Francesco Paolo Maggi.

alt
19 luglio 1992 - Palermo, via D'Amelio: in primo piano
il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli

Scotto cita una nota della Dia del 7 settembre 2007 dove si dice che “non è neanche possibile stabilire il tempo reale trascorso tra le immagini che inquadrano il capitano Arcangioli con la borsa in mano e quelle che lo ritraggono senza”. Questa osservazione nulla toglie all'ipotesi accusatoria descritta sopra. E' chiaro che non sia facile stabilire esattamente il tempo trascorso tra generiche immagini in cui Arcangioli appare con la borsa in mano e altre immagini in cui Arcangioli ne appare privo. Al massimo è possibile stabilirne una successione cronologica in base ad elementi esterni oggettivi (inclinazione della luce del sole, quantità di fumo presente, ecc.). Ma non è questo il punto e niente ha a che fare con i due filmati in questione. Tanto che Scotto deve prendere atto invece che la nota informativa del 27 novembre 2007 sostiene che i due filmati in esame si possano mettere in successione cronologica. Cioè Arcangioli è partito con la borsa in mano dal luogo dell'esplosione ed è arrivato fino in fondo a via D'Amelio, all'incrocio con via Autonomia Siciliana, sempre tenendo la borsa in mano.

Per il giudice Scotto tutto questo non ha alcuna valenza: “Nulla consente autonomamente di inferire circa la condotta che gli viene ascritta e in particolare di stabilire che la borsa contenesse l'agenda che poi sarebbe stata fatta sparire. (…) Quelle immagini non danno contezza di quanto tempo l'imputato avrebbe trattenuto la borsa, né da sole consentono di sostenere che questi si sia allontanato, non visto, per manipolarne il contenuto. Va inoltre rilevato che nemmeno è possibile sostenere che la borsa contenesse sicuramente l'agenda in questione”. Certo, verrebbe da osservare ironicamente, se ci fosse un filmato in cui si vede Arcangioli che apre la borsa e occulta l'agenda rossa saremmo tutti più felici e non ci sarebbe bisogno nemmeno di discutere se fare un processo o meno. Addirittura, se le telecamere fossero state a raggi X, avremmo potuto vedere direttamente se davvero dentro quella borsa c'era l'agenda rossa o meno. Peccato che, di solito, la colpevolezza di un imputato non sia così facile da dimostrare, anche a fronte di prove schiaccianti. E' chiaro che un dibattimento serve proprio per ottenere informazioni che possano corroborare o smentire quello che appare come una forte prova indiziaria. E cosa c'è di più forte di un filmato che mostra Arcangioli allontanarsi a 70 metri dal luogo dell'esplosione con la borsa in mano?

Scotto non fa un piega: “La direzione percorsa – verso Via Autonomia Siciliana – non è tale da far stabilire che l'imputato abbia sicuramente percorso tutta la Via D'Amelio, al fine precipuo di controllare il contenuto della borsa, non visto, e di celare l'agenda”. Certo, ma il sospetto è forte e oggettivamente fondato. Che senso aveva allontanarsi così tanto dal luogo dell'esplosione con la borsa in mano? Per farle prendere aria? E' un comportamento assolutamente normale o suscita qualche sospetto? O bisogna credere che Arcangioli facesse così con tutti gli oggetti che si trovava sotto mano? Li prendeva e li accatastava in via Autonomia Siciliana? Un copertone fumante qua, un pezzo di carrozzeria accartocciata là, una borsa... Avanti e indietro da Via D'Amelio senza uno scopo preciso? Dove stava portando quella borsa? E a chi? Cose evidentemente non degne di essere approfondite.



MA QUANTE BORSE AVEVA IL GIUDICE?

Il giudice Scotto introduce poi quella che secondo lui sarebbe la testimonianza più attendibile per la ricostruzione dell'accaduto: un verbale dell'ispettore di Polizia Francesco Paolo Maggi risalente al 21 dicembre 1992. Dice Scotto: “Gli unici dati certi circa una borsa appartenuta al magistrato ucciso sono costituiti dal verbale in cui si dà conto che veniva repertata, come priva di ogni rilievo investigativo, alla Procura della Repubblica di Caltanissetta il 5 novembre 1992”. La frase del giudice è a dir poco infelice. Che infatti questi siano “gli unici dati certi” sulla borsa del giudice fa quanto meno sorridere, se si pensa che Scotto sembra ignorare completamente che la borsa non fu in realtà “repertata” il 5 novembre 1992, cioè quattro mesi dopo, ma venne portata in Questura addirittura il giorno successivo, come dimostra la copia della ricevuta. Ma, a parte questo piccolo particolare, c'è un dettaglio da non trascurare nella frase del giudice: il fatto che parli di una borsa e non della borsa del giudice. Cioè, sta introducendo la tesi che poi riprenderà in seguito: la possibile esistenza di più borse tra loro identiche (almeno un paio). Sembra una idea surreale, visto che cozza contro ogni evidenza dei fatti e soprattutto contro le dichiarazioni degli stessi famigliari del giudice ucciso, ma Scotto vedremo che la insinuerà (senza mai sostenerla esplicitamente) con una certa frequenza e insistenza.

Scotto riporta un passo saliente del verbale di Maggi, secondo cui lui stesso “si avvicinava all'auto del magistrato dove un vigile del fuoco stava spegnendo detta auto e lo stesso dal sedile posteriore del mezzo in questione prelevava un borsa in pelle di colore marrone, parzialmente bruciata, il quale dopo avergli gettato dell'acqua per spegnerla, la consegnava al sottoscritto. Immediatamente informava il dr. Fassari della presenza della suddetta borsa, il quale riferiva di trasportarla presso l'ufficio del dirigente di qs. Squadra Mobile”. Scotto cita anche il fatto che, in un verbale successivo del 13 ottobre 2005, Maggi dichiara di essere intervenuto “quasi in contemporanea” ai primi mezzi dei vigili del fuoco (il primo intervento dei vigili del fuoco è delle 17:03). A corroborare la sua ipotesi, Maggi dichiara di aver visto il superstite Antonio Vullo non ancora soccorso, di essersi addentrato nella via D'Amelio, di aver notato la borsa nell'auto, di aver chiesto l'intervento di un vigile del fuoco e di aver prelevato la borsa, che ricorda essere stata “gonfia, quindi piena e pesante”.

Peccato che questa, che dovrebbe essere la prova regina secondo il giudice Scotto, cioè il fatto che Maggi fu il primo in assoluto ad entrare in possesso della borsa del giudice, è una ricostruzione palesemente falsa, che non ha alcun riscontro con tutte le altre dichiarazioni di tutti gli altri testi e soprattutto che stravolge (si spera in modo non voluto) le correzioni successive apportate dallo stesso Maggi. Maggi infatti ha poi precisato di essere sì arrivato in via D'Amelio “quasi in contemporanea con i vigili del fuoco”, ma non di non aver subito esaminato l'auto del giudice. La verità è che Maggi, per sua stessa ammissione, prima di arrivare sul luogo andò a prendere il dr. Fassari a casa sua, poi, una volta in Via D'Amelio, si attivò per soccorrere una bambina e infine fece più volte avanti e indietro in via D'Amelio aspettando che i vigili del fuoco spegnessero gli incendi. Solo allora si avvicinò alla vettura del giudice ed estrasse la borsa. E' chiaro dunque che non è possibile stabilire, come fa il giudice Scotto, che Maggi sia stato il primo a prendere nelle mani la borsa. C'era infatti tutto il tempo, per altri soggetti, di mettere mano alla stessa.

E che sia una tesi che fa a pugni con la realtà è subito dimostrato. Se veramente bisogna credere che Maggi fu il primo a prendere la borsa e ad affidarla a Fassari che la portava immediatamente in questura senza ulteriori passaggi di mano, significa che la borsa che ha in mano Arcangioli, ritratto in foto, è un'altra! Scotto sta dunque veramente asserendo che esisterebbero due distinte borse del giudice Borsellino: una prelevata da Maggi e portata immediatamente in questura, l'altra che, sbucata da non si sa bene dove, compare nelle mani di Arcangioli qualche minuto più tardi. Una tesi quanto mai bizzarra, che è subito demolita da una più realistica ricostruzione dei fatti. Si vedrà infatti che, anche tralasciando tutte le possibili incongruenze delle dichiarazioni dei vari testi, una delle poche cose incontrovertibili della vicenda è che fu Ayala il primo ad intervenire sul luogo dell'attentato e ad occuparsi immediatamente della borsa. Il quadro è confermato dalle dichiarazioni del suo agente di scorta, dal giornalista Felice Cavallaro e persino in qualche modo da Arcangioli stesso. Il giudice Scotto sottolinea il fatto che Maggi dichiarò che la borsa era “piena e pesante”, come a insinuare che dentro ci potesse ancora essere l'agenda rossa e che quindi, nel caso, sicuramente non fu Arcangioli a farla sparire. Peccato che la borsa era pesante, non certo per la presenza dell'agenda, ma perché era impregnata di acqua, gettata da un vigile del fuoco per spegnere un ritorno di fiamma.

Alla luce di questi fatti, è veramente sconcertante leggere che “gli unici dati certi circa una borsa appartenuta al magistrato ucciso sono costituiti dal verbale” di Maggi. Anzi: probabilmente è vero. Il problema è la ricostruzione deformata che Scotto ne fa. Una ricostruzione che oggettivamente non sta insieme e che arriva a sfiorare il ridicolo quando ipotizza implicitamente l'esistenza di due borse identiche. Cosa che, tra l'altro, lungi dallo scagionare Arcangioli, lo metterebbe per assurdo in una posizione ancora più sospetta. Dove avrebbe preso Arcangioli la “seconda borsa” e dove la starebbe portando?

Un ulteriore aspetto che avrebbe dovuto far insospettire Scotto, è il fatto che questa relazione di servizio fu redatta solo sei mesi dopo la strage. Un tempo enorme. Ma Scotto non solo non si insospettisce: utilizza questo particolare come un punto a favore di Arcangioli. Perchè, argomenta Scotto, prendersela tanto con Arcangioli per non aver mai redatto una relazione di servizio, quando anche altri ci hanno messo sei mesi per farne una? Ma che modo di ragionare è? Da quando in qua due mancanze si annullano fra loro? E poi: Scotto è forse l'avvocato di parte di Arcangioli? Non spetta certo al gup stabilire l'innocenza dell'imputato, soprattutto quando questa è reclamata in modo così maldestro, cioè a fronte di possibili analoghi torti altrui.

I TESTIMONI

Il giudice Scotto passa a questo punto ad analizzare le varie testimonianze.


La prima versione di Ayala


L'8 aprile 1998, in tempi dunque non sospetti, cioè sette anni prima del coinvolgimento di Arcangioli, Giuseppe Ayala, che il 19 luglio 1992 era deputato della Repubblica, in un diverso processo, aveva dichiarato: “Tornai indietro verso la blindata della procura anche perché nel frattempo un carabiniere in divisa, quasi certamente un ufficiale, se mal non ricordo aveva aperto lo sportello posteriore sinistro dell'auto. Guardammo insieme in particolare verso il sedile posteriore dove notammo tra questo e il sedile anteriore una borsa di cuoio marrone scuro con tracce di bruciacchiature e tuttavia integra, l'ufficiale tirò fuori la borsa e fece il gesto di consegnarmela. Gli feci presente che non avevo alcuna veste per riceverla e lo invitai pertanto a trattenerla per poi consegnarla ai magistrati della procura di Palermo”.

In questa prima versione è dunque un ufficiale in divisa ad aprire la portiera, ad estrarre la borsa e a fare il gesto di consegnarla ad Ayala, ma lui rifiuta di prenderla in mano.


La prima versione di Ayala, riveduta


Il 2 luglio 1998, sentito al Borsellino Ter, Ayala aveva dichiarato di essere residente all'hotel Marbella, a non più di 200 metri in linea d'aria da Via D'Amelio. Sente il boato nel silenzio della domenica pomeriggio. Si affaccia, ma non vede nulla perché davanti c'era un palazzo. Per curiosità scende giù, si reca in via D'Amelio e vede “una scena da Beirut”. “Saranno passati dieci minuti, un quarto d'ora massimo”. Dice di non sapere che lì ci abitava la madre di Paolo Borsellino. Camminando comincia a vedere pezzi di cadavere. Vede due macchine blindate, una con un'antenna lunga, di quelle che hanno solo le macchine della procura di Palermo. Pensa subito a Paolo Borsellino. “Ho cercato di guardare dentro la macchina, ma c'era molto fumo nero”. Ayala afferma che proprio in quel momento stavano arrivando i pompieri. Osserva il cratere e poi torna indietro. “Sono tornato verso la macchina, era arrivato qualcuno... parlo di forze di polizia. Ora, il mio ricordo è che a un certo punto questa persona, che probabilmente io ricordo in divisa, però non giurerei che fosse un ufficiale dei carabinieri, (...) ciò che è sicuro è che questa persona aprì lo sportello posteriore sinistro della macchina di Paolo. Guardammo dentro e c'era nel sedile posteriore la borsa con le carte di Paolo, bruciacchiata, un po' fumante anche... però si capiva sostanzialmente... lui la prese e me la consegnò. (…) Io dissi: - Guardi, non ho titolo per... La tenga lei. -

In questa versione leggermente ritoccata, non c'è più la sicurezza di un ufficiale in divisa che apre la portiera, ma permane la certezza che sia stata questa persona ad aprire la portiera e a raccogliere la borsa. Ayala, in ogni caso, nega assolutamente di aver preso in mano e aperto la borsa. “Io poi mi sono girato, sono andato di nuovo verso questo giardinetto, e lì poi ho trovato il cadavere di Paolo. (…) Io ci ho inciampato nel cadavere di Paolo, perché non era un cadavere... era senza braccia e senza gambe”.

Ayala afferma che in quel momento lo raggiunge Felice Cavallaro, che scoppia a piangere e lo abbraccia e gli dice che tutta Palermo lo crede morto: questo perché pochissimi sapevano che lì abitava la madre di Borsellino, mentre tanti sapevano che in quelle zone abitava lui. “Tutta Palermo è piena della voce che ti hanno ammazzato!


Continua su www.19luglio1992.com

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

La soluzione finale 10 Nov 2009 10:52 AM (15 years ago)

"Sono in discussione in parlamento disegni di legge come quello sulle intercettazioni telefoniche, come quelli che pensano di accorciare ancora i tempi di prescrizione del reato, come quelli che prevedono uno stravolgimento del processo penale e l'indipendenza e l'autonomia della magistratura attraverso una espropriazione al pubblico ministero dei poteri di indagini, dei poteri di iniziativa nelle indagini – mi riferisco al disegno di legge che tende ad attribuire alla sola polizia giudiziaria il compito dell'iniziativa nelle indagini, polizia giudiziaria che, come noto, al contrario del pubblico ministero, è sottoposta al controllo diretto dell'esecutivo – beh, credo che di fronte a questo quadro, direi all'avvicinarsi di una sorta di baratro dello stato di diritto... ché siamo ahimè a pochi metri... in questa fase estremamente delicata di alcune indagini e inchieste (…) forse un magistrato il diritto di dire qualcosa ce l'ha e lo rivendico tutto.

La situazione presenta aspetti di drammaticità tale per cui credo sia difficile non usare termini che talvolta rischiano di apparire esagerati o enfatici. (…) io credo che siamo in una situazione di emergenza. Un'emergenza vera, effettiva. Non le emergenze fittizie, le emergenze create ad hoc per deviare l'attenzione dell'opinione pubblica, non l'emergenza immigrazione, non l'emergenza magistratura, non l'emergenza intercettazioni: noi in Italia abbiamo un'emergenza democratica. E l'emergenza democratica che abbiamo nel nostro paese nasce da una situazione attuale, contingente, che ha a che fare con un attacco sistematico che si avvia verso una sorta di - passate il termine, riconosco, un po' enfatico - di soluzione finale, ma questa sensazione mi dà quello che sta accadendo negli ultimi mesi.

Gli unici presidi di controllo rimasti in piedi sono la magistratura e la libera informazione. Su questi snodi, in modo lucido e sistematico, si muovono le iniziative legislative attuali all'orizzonte, quella sulle intercettazioni ad esempio, che costituisce soltanto l'ultimo anello. (…) Ma quel che sta accadendo in Italia, che è accaduto negli ultimi dieci anni (…) e che rende non enfatica, anzi direi quasi un eufemismo, l'espressione che ho usato prima di emergenza democratica, è che noi non ci troviamo tanto o soltanto di fronte a una sistematica demolizione dei pilastri dello stato di diritto. Noi ci troviamo di fronte a una sistematica demolizione dello Stato. Quello che è accaduto negli ultimi anni è una progressiva e radicale rimodulazione del modello istituzionale nel quale la differenza tra quella che in Italia chiamiamo cosiddetta prima e seconda repubblica è che nella prima repubblica vi era una politica che svolgeva un ruolo di mediazione talvolta inquinata da interessi privati e talvolta inquinata anche da interessi criminali, ruolo di mediazione svolto dalla politica che nella seconda repubblica semplicemente non esiste più.

Noi abbiamo detto spesso nel passato che è errata l'immagine “scontro politica-giustizia” anche perché c'era solo una parte che picchiava contro l'altra, e cioè la politica contro la giustizia. Ma io dire un'altra cosa. Noi invece non abbiamo avuto un assedio della politica contro la giustizia. Noi abbiamo semplicemente perso la politica, perché le istituzioni e la politica sono state occupate dagli affari e dagli interessi privati. E quindi è il privato che ha sostituito il pubblico. La differenza quindi tra la prima repubblica e la seconda è che è saltato qualsiasi ruolo di mediazione che la politica svolgeva nella cosiddetta prima repubblica. Questo è quello che mi allarma e mi preoccupa.

Siccome, come ci ricordavano uomini come Falcone e Borsellino, la lotta alla mafia non la puoi fare soltanto dentro i palazzi di giustizia con le indagini e coi processi. Dentro i palazzi di giustizia devi fare appunto le indagini e i processi. Con le prove, se ci sono e se non ci sono le prove non fai né l'uno né l'altro. Ma per affrontare la mafia, che non è soltanto un'organizzazione criminale, ma che è un sistema di potere criminale, la magistratura da sola non può vincere questo scontro. Occorre un movimento ampio, di opinione, della società ed è quello che Paolo Borsellino diceva con una frase, che se noi dicessimo oggi saremmo accusati naturalmente di essere politicamente schierati, che il nodo - diceva Paolo Borsellino – della lotta alla mafia è essenzialmente politico, perché prima di una magistratura antimafia occorre una politica antimafia.

E quindi io da magistrato non voglio un'assenza di politica da invadere con la mia azione giudiziaria. (…) Io voglio una Politica che sia con la P maiuscola e non la p minuscola. Una politica cioè che sia luogo dove vengono perseguiti gli interessi pubblici e non gli interessi privati e che quindi la politica antimafia sia nell'interesse dei cittadini soprattutto e quindi una politica che abbia tra le sue priorità la lotta ai poteri criminali e non ne venga invece invasa, condizionata, subendone le infiltrazioni e che abbia a cuore, perché ne costituisce un presupposto, una magistratura autonoma, indipendente, responsabile (perché la magistratura deve essere naturalmente responsabile e deve rispondere per le sue colpe, ma non per colpe inventate).

Non si tratta di assumersi sulle spalle nessun progetto politico. (…) Dalla magistratura viene una richiesta di politica alla politica (…) e non di fare la guerra alla magistratura.

Di fronte a un quadro nel quale noi abbiamo perso un'opinione pubblica critica perché sull'opinione pubblica vengono rovesciate falsità, luoghi comuni, i fatti non vengono raccontati, ogni fatto viene trasformato in opinione, abbiamo un livello di imbarbarimento del dibattito pubblico, soprattutto il dibattito sulla giustizia, che credo anche questo sia senza precedenti. L'uso della menzogna in politica che è tipico dei regimi si è in modo preoccupante particolarmente accentuato negli ultimi anni soprattutto sui temi cruciali. Raccontare delle letterali “palle” come quelle che sono state dette sul tema delle intercettazioni, sul fatto che tutti gli Italiani siano intercettati, “palle” come quelle che in altre parti del mondo la legislazione sia più garantista che quella in Italia... (…) il problema delle spese non si risolve abolendo le intercettazioni. (…) Se si eliminano le intercettazioni per ridurre le spese, forse chissà che l'obiettivo non è quello di ridurre le spese, ma è di ridurre le intercettazioni e i poteri del pubblico ministero.

C'è un obiettivo di autoconservazione della classe dirigente di cui questa classe politica è espressione, di una classe dirigente che realizza per via legislativa quello che realizzava un tempo altrimenti.

La magistratura di qualche decennio era forte con i deboli e debole con i forti. Poi la magistratura cambiò e venne invasa da un'altra generazione di magistrati che prendono come modelli Falcone e Borsellino e che applicano la legge uguale per tutti.

Ecco che allora è come se si fosse rotto un patto, un patto di non belligeranza, interno alla classe dirigente, nel quale un pezzo di classe dirigente (...) nella sua grande prevalenza ha rotto questo patto di non belligeranza e ha iniziato ad applicare la legge in modo eguale nei confronti di tutti finendo per portare sul banco degli imputati altri appartenenti alla classe dirigente e talvolta anche altri magistrati, altri uomini politici, altri imprenditori. Di qui sono scattati gli anticorpi, di qui si è avviato un progetto lucido, determinato, che viene da lontano e vuole andare lontano, di revisione della legislazione per realizzare il medesimo obiettivo: l'autoconservazione di una classe dirigente che costituisce la vera anomalia del nostro paese.

Si è realizzato in Italia quello che non un magistrato giustizialista, ma un intellettuale pacato e che per altro si occupa spesso di altro, di arte e letteratura, come Pietro Citati, disse tempo fa in un lucidissimo articolo di quel processo di “mafiosizzazione” del paese che si è realizzato negli ultimi anni. Noi, questo processo di “mafiosizzazione” lo vediamo, lo vediamo ogni giorno e quello che più ci preoccupa è quello che ha fatto sì che non solo degli interessi privati hanno invaso le istituzioni spazzando via la politica nel senso più nobile del termine e ha fatto sì che anche interessi squisitamente criminali sono entrati e hanno invaso anche le istituzioni.

Mi sento, come tutti gli Italiani, un po' figlio della trattativa tra stato e mafia perché quel che noi abbiamo intorno probabilmente è anche in qualche modo frutto di quella trattativa. E allora, se così è, noi abbiamo il diritto di sapere chi sono stati i nostri padri, cioè i padri di quella trattativa per potere sapere quale è stato il nostro passato, soltanto così possiamo fare i conti col nostro presente e il nostro futuro.

La nostra àncora di salvezza è la carta Costituzionale. La Carta Costituzionale che credo vada difesa in tutti i modi e ha costituito la bussola della parte migliore del nostro paese. E a questa ci dobbiamo attenere.

Il nostro compito è quello di contagiare l'altra Italia, l'Italia dell'indifferenza, che ha finito per dare ragione con la sua indifferenza e la sua neutralità ai poteri criminali. Io credo che non sia tempo di neutralità. Credo che sia tempo di schierarsi dalla parte della Verità e della Giustizia".


Antonio Ingroia, procuratore aggiunto di Palermo, 7 novembre 2009

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Una scelta di vita 9 Nov 2009 10:56 AM (15 years ago)


Ieri, 8 novembre 2009, è apparso sul sito di BlogSicilia un articolo scritto da un utente (nickname: jophx) dal titolo provocatorio “Ciancimino, un cretino o un volpino?”. Naturalmente si riferiva al più famoso tra i cinque figli di Don Vito, Massimo Ciancimino, che in questi ultimi mesi ha goduto di particolare visibilità mediatica (non ultima l'apparizione alla trasmissione AnnoZero del 9 ottobre 2009) grazie alle rivelazioni che da quasi due anni sta fornendo alle procure di tutta Italia in merito alle stragi del '92-'93 e alla cosiddetta trattativa tra stato e mafia. L'articolo mirava a stabilire, senza per altro prendersi troppo sul serio, in quale delle due categorie, “cretino” o “volpino”, si dovesse classificare colui che erroneamente viene definito un collaboratore di giustizia, ma che in realtà viene ascoltato dai magistrati semplicemente in qualità di persona informata sui fatti.

Massimo è il classico rampollo “casinista, pecora nera della famiglia, inconsistente, senza spina dorsale, viziato, cresciuto nella “bambage”, dedito alla gnocca e a tutti i vizi di questo mondo grazie all’uso ed abuso dei soldi di papà” oppure è un furbetto “che la vicinanza al padre, nel tramonto della propria vita quindi al massimo della saggezza e dell'amore paterno, ha fatto maturare, sbocciare, “allignare” in tutta la sua intelligenza e con la consapevolezza delle proprie origini e storia familiare”?


Ne è scaturito un dibattito interessante tra gli utenti del sito, che hanno avuto tra di loro un ospite d'eccezione, lo stesso Massimo Ciancimino. Con la pacatezza che sempre lo contraddistingue e che sembra sollevarlo, con distacco, dalle cose, talora gravi ed esplosive, che racconta, ha risposto alle argomentazioni, senza sottrarsi alle critiche, ma rivendicando il proprio ruolo e le proprie scelte. Poi, visto che lo spazio per il botta e risposta tra i commentatori era troppo esiguo per poter esprimere appieno il proprio pensiero, Massimo Ciancimino ha deciso di scrivere lui, di suo pugno, una lettera alla redazione di BlogSicilia per rispondere punto su punto. Lettera prontamente pubblicata, col titolo “Non si può scegliere dove nascere ma come vivere sì”.

Una lettera che contiene indubbiamente spunti interessanti di riflessione e che ci restituisce un Massimo Ciancimino “più umano”, con tutti i problemi e le paure di chi, per sua stessa ammissione, si ritrova a destreggiarsi in un gioco più grande di lui. Con tutti i ragionevoli timori e difficoltà di chi, in qualità di figlio, si trova a dover parlare delle colpe del padre e, in qualità di padre, ha la necessità di tutelare l'incolumità della moglie e del figlio, che “a giorni festeggia il suo quinto compleanno e a cui, non a caso, è stato dato il nome di VitoAndrea, “non aderendo, a differenza dei miei fratelli, - dice Massimo - all’ennesimo invito Paterno a non dare a nessuno dei nostri figli il nome del Nonno Vito”.

E qui trapela l'orgoglio, tutto siciliano, di portare quel cognome così pesante, un cognome che immediatamente rimanda, nell'immaginario collettivo, al “sacco di Palermo”, a collusioni pericolose, a fatti di mafia. Non che Massimo sia uno stinco di santo, né che miri a passare per tale. Anzi. Ha ben presente i propri errori (è stato condannato per riciclaggio del denaro del padre), non ne fa mistero, non ha alcuna vergogna di parlarne, quasi ostentando quella naturalezza con cui ha ammesso di fronte ai giudici di avere sbagliato, e quindi pagato. Anche questo fa parte del personaggio. Narcisista? Può darsi. Sfrontato? Non parrebbe. Quel che è certo, e che ci tiene a sottolineare, è la sua diversità dagli altri quattro fratelli. Fa presente che, sebbene inizialmente fossero tutti e cinque sotto indagine, solo lui poi fu rinviato a giudizio, mentre, per quanto riguarda i fratelli, “stranamente le loro posizioni, su richiesta della procura, vengono archiviate perché niente prova circa la loro conoscenza sulle attività politiche del padre, quindi le origini del denaro”. E' quel termine, “stranamente”, la chiave di volta del pensiero di Massimo. Ritiene, a torto o a ragione, di essere stato preso come capro espiatorio: lui unico confidente del padre, lui unico custode di verità indicibili, lui unico conoscitore e gestore del tesoro di Don Vito.

Non lo dice per discolparsi, ma per dimostrare in modo provocatorio come, se c'è un epiteto che non gli si addice, è proprio quello di “cretino”. Avrebbe potuto un cretino scapestrato, dedito solo ai vizi e alle donne, gestire un patrimonio enorme come quello ereditato dal padre? Ma è lui, Massimo, il primo a sapere che, soprattutto in Sicilia, “è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”. E i pregiudizi su di lui, inutile nascondersi, fioriscono e proliferano. Soprattutto da quando ha iniziato a parlare e a “vuotare il sacco”. Perché ha deciso di parlare solo adesso dopo così tanto tempo? Perché non ha denunciato il padre quando era ancora in vita? Perché non si è offerto volontariamente ai magistrati, ma ha atteso che i magistrati venissero da lui? Forse temeva di perdere i benefici derivanti dal tesoro di Don Vito e ora che tante verità stanno venendo alla luce tenta di salvare il salvabile? Forse sta tentando di accattivarsi i magistrati per avere degli sconti di pena?

Quando Massimo fu chiamato per la prima volta da Ingroia e Di Matteo nel gennaio del 2008, aveva messo in conto tutto questo. Aveva messo in conto che gli sarebbero piovute addosso miriadi di critiche. Aveva messo in conto che le sue rivelazioni avrebbero scatenato polemiche violente. Aveva messo in conto che sarebbe stato sottoposto ad un sistematico tentativo di delegittimazione. E aveva messo in conto, soprattutto, che avrebbe messo a repentaglio la sua vita e quella della sua famiglia. Nella lettera a BlogSicilia, Massimo Ciancimino si lascia andare e racconta di un episodio che fotografa bene, nella sua semplicità e, in un certo senso, normalità, la situazione famigliare che sta vivendo in questo momento: “Proprio ieri, in seguito ad una frase sicuramente detta nell’ingenuità ed innocenza che li contraddistingue, (nello specifico un compagno di classe gli ha detto che il suo Papà dice sempre che prima o poi ammazzeranno il padre di VitoAndrea…) ho cercato di parlare con Lui di cosa sta accadendo nella nostra vita familiare”.

E' chiaro che chi si mette a sparare sulla “memoria ad orologeria” del figlio di Don Vito, contando sul fatto che sui Ciancimino sia possibile dire di tutto per il semplice motivo che portano quel cognome, non comprende, o non vuole comprendere, come dietro ad una decisione tanto travagliata come quella di iniziare una delicatissima collaborazione con la giustizia, che potrebbe riscrivere la storia del nostro paese degli ultimi vent'anni, vi siano sempre degli uomini con le proprie paure, le proprie debolezze e, soprattutto, i propri affetti personali da tutelare in ogni modo.

Anche questo, Massimo l'aveva messo in conto. E per questo non si tira indietro e risponde con pazienza alle critiche, da quelle legittime a quelle più gratuite. Spiega che se ha aspettato fino al 2008 per parlare con i magistrati non è stato per suo vezzo personale, ma semplicemente perché nessun magistrato (anche, aggiungo io, tra coloro che in questi giorni pontificano di “legittime” trattative tra mafia e stato in vista di una cessazione della strategia stragista) fino ad allora si era “ricordato” di chiamarlo, lui che costituiva la memoria storica del defunto padre, per anni cardine fondamentale e imprescindibile di quell'ingranaggio perfettamente oliato che permetteva l'interazione tra le istituzioni da una parte e Cosa Nostra dall'altra. E lui è il primo ad essere rimasto stupito di questa incomprensibile “dimenticanza”.

Ci sono voluti due magistrati come Ingroia e Di Matteo sotto la guida del procuratore capo Messineo per capire che le cose che sicuramente Massimo sapeva potevano dare un impulso decisivo alle indagini. Ci è voluta, ancora prima, una lunga intervista al giornalista di Panorama Gianluigi Nuzzi, che in parte fu lo spunto per un articolo “Vi racconto Mio Padre don Vito Ciancimino” pubblicato dal settimanale nel dicembre del 2007, per accendere i riflettori su di lui e sulle rivelazioni che avrebbe potuto fornire. E per quei magistrati della procura di Palermo, di Caltanissetta e di tutte le altre che da mesi lo stanno ascoltando, Massimo Ciancimino ha parole di profonda stima e riconoscenza: “Posso soltanto dire di aver trovato magistrati come Ingroia, Di Matteo, Lari, Scarpinato ed altri che non hanno mai mancato di giusta attenzione alle mie parole, sempre liberi da qualsiasi forma di pregiudizio rispetto al contenuto delle mie risposte”.

A volte è strana la vita del magistrato antimafia: apprezzato e stimato proprio dai collaboratori di giustizia (che di solito mostrano di avere un gran fiuto nel saper scegliere i magistrati migliori a cui affidare le proprie rivelazioni) e delegittimati da coloro che rappresentano le istituzioni e si autodefiniscono servitori dello stato. E' successo a suo tempo a Giovanni Falcone con Tommaso Buscetta, è successo a Paolo Borsellino con Vincenzo Calacara e Gaspare Mutolo, è successo a Giancarlo Caselli con Balduccio Di Maggio, succede oggi ai magistrati di Palermo e Caltanissetta che vengono accusati dal presidente del consiglio di utilizzare i pentiti per cospirazioni politiche e addirittura da uno dei simboli della caccia ai latitanti, il capitano Sergio De Caprio, il mitico capitano Ultimo, di essere dei “servi di Riina” per aver dato credito alle dichiarazioni di “un servo di Riina come Massimo Ciancimino”.


Coloro che oggi si stracciano le vesti e scuotono il capo per una magistratura che torna ad indagare sulle stragi del '92-'93 sulla base delle rivelazioni di un mafioso sanguinario come Gaspare Spatuzza e sui ricordi e le carte messe a disposizione da un figlio di un mafioso come Massimo Ciancimino, dovrebbero prima chiedersi come mai, in tutta la storia dell'antimafia, gli unici successi si sono riscontrati proprio quando i magistrati sono riusciti a far cantare i tanto vituperati pentiti, i macellai, i delinquenti di strada, insomma, la manovalanza di Cosa Nostra. Se si fosse aspettato che qualcuno di più alto grado spontaneamente denunciasse le sconcerie intercorse tra pezzi delle istituzioni e criminali comuni, forse ora ci sarebbe ancora qualcuno che negherebbe l'esistenza della mafia.

Ciò che è grave non è il fatto che dei magistrati “vadano dietro” ai pentiti, ma che, per sperare di vederci chiaro, siano costretti a farlo, con tutte le cautele del caso ovviamente, perché non esiste uno solo, all'interno dello stato, che abbia il coraggio di esporsi e di dire tutto quello che sa. Il fatto che la magistratura debba affidarsi alle dichiarazioni di collaboratori di giustizia, la cui attendibilità è tutta da vagliare, dovrebbe risuonare come un atto d'accusa fortissimo contro quegli uomini delle istituzioni che, pur sapendo, tacciono o mentono.

Ma anche questo, Massimo Ciancimino l'aveva messo in conto: il collaboratore di giustizia è credibile fino a che serve a far catturare altri latitanti, nel momento in cui le sue dichiarazioni possono diventare pericolose per i pesci grossi, viene delegittimato e crocifisso. E' per questo che, quando qualcuno gli chiede di spiegare il suo silenzio durato così tanti anni, Massimo non si scompone più di tanto e dice: “Credo debba girare la domanda ad altri”. Ed è anche per questo che lancia un appello vibrante, non agli uomini dello stato, ma alla “progenie di Riina e Provenzano” perché seguano il suo esempio di “figlio della mafia” e decidano di mettere a disposizione della giustizia tutto il patrimonio di conoscenze che hanno acquisito in qualità di testimoni diretti. “Credo che anche i figli di Riina e Provezano potrebbero fare qualcosa in tal senso, sarebbe un grande passo”.

Non ci tiene a passare per eroe. A chi gli chiede “Ma chi te lo fa fare?” si schermisce e tenta di ridimensionare il suo ruolo. Ripete che non sta facendo nulla di eccezionale, sta semplicemente rispondendo alle domande che i magistrati gli fanno, portando i documenti che i magistrati gli dicono di portare. D'altra parte è assolutamente cosciente del “non semplice ruolo di testimone diretto o indiretto di fatti riguardanti le collusioni politico affaristiche mafiose degli ultimi venti anni, anni - dice - in cui mio Padre sicuramente esercitava una importante figura tra gli attori principali.

Se è vero, come si dice, che “le colpe dei padri non debbono mai ricadere sui figli”, per Massimo Ciancimino questo detto dovrebbe valere ancora di più. Primo, perché nel momento in cui la magistratura l'ha chiamato in causa, non si è tirato indietro, non si è nascosto dietro i “non so” e i “non ricordo” di cui abbondano le dichiarazioni di illustri ministri ed ex-ministri. Secondo, proprio perché “nessuno gliel'ha fatto fare”. Di vantaggi, è facilmente dimostrabile, ne avrebbe avuti decisamente di più a starsene zitto. Dice di star facendo tutto quello che sta facendo semplicemente perché pensa “di poter essere utile”. E scusate se è poco.

Non si può sceglier dove nascere ma sicuramente si può sceglier come vivere”, spiega Massimo Ciancimino. Frase che Salvatore Borsellino potrebbe far sua, conoscendone perfettamente il significato e avendola in un certo senso sperimentata sulla propria pelle, quando da giovane si allontanò da Palermo per tentare di sfuggire al “puzzo del compromesso morale” che ammorbava l'isola. Solo per scoprire, molti anni dopo, che quel cancro si era esteso in tutto il paese e si era trasformato in una vera e propria metastasi che veniva a bussargli alla porta, alle porte di Milano. Non a caso, forse, uno dei pochi che ha avuto il coraggio di dimostrare a Massimo Ciancimino vicinanza e riconoscenza per le preziose informazioni che sta fornendo ai magistrati (tra cui brilla la copia del famigerato papello) è stato proprio Salvatore, colui che da anni si batte in prima persona con coraggio veemente perché si arrivi finalmente alla Verità e alla Giustizia sulle stragi del '92.

Lui, sicuramente, ha scelto come vivere.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Lo strano caso del comune di Fondi (LT) 24 Oct 2009 3:15 AM (16 years ago)


Fondi è un comune di circa 31.169 abitanti, appartenente alla provincia di Latina e situato nel sud Pontino a metà strada tra Roma e Napoli, sul tracciato storico della Via Appia. Le favorevoli condizioni climatiche e l’abbondante irrigazione hanno favorito un’intensa vocazione agricola del territorio. L'economia locale è quindi fortemente legata alla produzione e alla distribuzione dei prodotti agricoli. La tradizionale destinazione del territorio ad agrumeto è stata soppiantata in anni più recenti da un’intensa coltivazione di ortaggi, primizie in serra e frutta di ogni tipo. Fondi è sede del secondo centro di distribuzione agroalimentare all'ingrosso d'Europa (M.O.F.), secondo solo a quello di Parigi, che movimenta circa 1,15 milioni di tonnellate di prodotti ortofrutticoli all'anno.


L'indagine Damasco1

Il comune di Fondi e, in generale, tutta l'area della provincia di Latina, è da tempo sotto attenta osservazione da parte degli organi di polizia giudiziaria che, seguendo il filo delle carte processuali, sono arrivati negli ultimi anni a scoperchiare un giro di corruzione che convive in simbiosi con le istituzioni. Nel caso del procedimento denominato Damasco1, che inizia nel 2005 con il procedimento penale n.36857 a carico di tre cittadini di Fondi, le carte svelano con chiarezza che in provincia di Latina, non soltanto quindi a Fondi, la corruzione abita nei palazzi del potere e veste i panni della politica, sempre pronta a siglare affari con il crimine organizzato. L'indagine, portata avanti dalla Dda, concentra l'attenzione sul controllo dei locali notturni, delle agenzie di pompe funebri e delle imprese di pulizie: una rete che secondo gli inquirenti si estende tra Fondi, Monte San Biagio, Itri, San Felice Circeo e Terracina.

Il 21 settembre 2007 il pubblico ministero della Dda Diana De Martino dispone un nuovo procedimento penale contro Riccardo Izzi, Romolo Del Balzo e Massimo Di Fazio: i reati ipotizzati sono l'associazione per delinquere di stampo mafioso, l'abuso d'ufficio e la concussione. Il procedimento penale nasce da un'informativa dei Carabinieri che non lascia spazio a dubbi:

E' stata individuata l'attiva presenza di un'organizzazione che, pur non essendo organica a quella investigata ne favorisce gli interessi e le attività attraverso la sistematica consumazione di delitti contro la pubblica amministrazione. Tale organizzazione, avvalendosi della posizione d'impiego che parte dei sodali rivestono nell'ambito di settori della pubblica amministrazione (politico, amministrativo, giudiziario, esecutivo) attraverso una rete clientelare di scambi di favori e corruzioni, riescono a gestire e controllare parte dell'attività istituzionale del Comune di Fondi accaparrandosi illeciti vantaggi nell'ambito di altri enti pubblici.

Riccardo Izzi vuota il sacco

Nei primi del gennaio 2008, Riccardo Izzi, consigliere di Forza Italia, ex assessore ai lavori pubblici nel comune di Fondi, è vittima di un duplice attentato incendiario alla sua autovettura. Izzi viene immediatamente interrogato dai Carabinieri, ma inizialmente non rivela nulla: “Non so chi possa essere stato”. Il giorno dopo però ci ripensa e torna in commissariato per riferire i due anni di inferno passati al comune, contrassegnati dall'esperienza della cocaina, che lo hanno avvicinato a personaggi legati alle cosche mafiose, come Domenico Tripodo, Massimo Di Fazio, Aldo Trani, Zizzo, Garruzzo ed altri. Confessa che, nell’ultima campagna elettorale per il rinnovo del Consiglio Comunale del 28 maggio 2006, ha preso voti da tale organizzazione criminale.

“Se qualcuno pensa di trovare a Fondi i segni della Lupara si sbaglia di grosso. Perché la quinta mafia, così chiamano l'intreccio d'interessi tra 'ndrangheta e camorra, è qui per investire e per farlo ha bisogno di tranquillità. Due le attrazioni che spingono questa nuova mafia a riciclare il denaro sporco nel Basso Lazio. Il mercato immobiliare che, grazie al turismo è in forte espansione, e il Mof, il mercato ortofrutticolo di Fondi, uno dei più grandi d'Europa”.

Siamo al 3 gennaio 2008. La Procura Antimafia è allertata e i pubblici ministeri Diana De Martino e Francesco Curcio convocano Riccardo Izzi a Roma per la data del 9 gennaio 2008. Il giorno precedente, l'8 gennaio, l'assessore riceve una telefonata dal padre, che lo avverte: “Ti cerca Claudio Fazzone”. Claudio Fazzone è un senatore della Repubblica, potentissimo cavallo di razza del PDL, cresciuto facendo da galoppino a Nicola Mancino e che ora controlla un patrimonio di circa 50.000 voti nel Lazio. Era già presidente del Consiglio regionale del Lazio e coordinatore provinciale di Forza Italia. Fazzone informa Izzi di essere già al corrente di tutte le dichiarazioni da lui rese ai Carabinieri e sa che l'indomani lo attendono i magistrati dell'Antimafia. “Ti devi dimettere subito. Devi lasciare il Comune di Fondi. So cosa vai a fare domani a Roma”. Come faceva il senatore Fazzone a conoscere in maniera dettagliata le dichiarazioni rese qualche giorno prima ai Carabinieri?

La relazione del prefetto

Il perfetto di Latina, il dottor Bruno Frattasi, visto il grave pericolo di infiltrazioni mafiose all'interno del Consiglio Comunale di Fondi, l'11 febbraio 2008 insedia una Commissione di Accesso che, dopo alcuni mesi di lavoro, con una relazione di 507 pagine integrata da 9 faldoni di documenti allegati, accerta ciò che Riccardo Izzi sostiene e cioè che l'amministrazione comunale di Fondi è collusa con una famiglia mafiosa ritenuta la cassaforte dell'usura del basso Lazio.

L'8 settembre del 2008, sulla base della relazione della Commissione di Accesso, Frattasi spedisce al ministro dell'Interno Roberto Maroni una propria relazione segreta sulla presenza della Camorra e dell'Ndrangheta a Fondi, con la richiesta di scioglimento immediato del comune per infiltrazione mafiosa.

Alcuni passi salienti:

La relazione della Commissione di Accesso presso il Comune di Fondi chiaramente tratteggia la fitta ragnatela di rapporti che, nel tempo, è venuta a delinearsi tra soggetti di sicuro spessore criminale, come attestano le referenziate acquisizioni testimoniali a cui, con riferimento a deposizioni giudiziali in procedimenti già celebratisi, fa più volte richiamo la Commissione stessa. Da quella relazione riservata emergono l'inosservanza sistematica della normativa antimafia del comune e le gravissime violazioni dell'amministrazione di Fondi, che, unite all'agevolazione di interessi economici di elementi contigui alla criminalità organizzata o da considerare ad essa affiliati, conferiscono al quadro di insieme una pericolosità tale da dover essere fronteggiata col commissariamento.

In questo quadro, appaiono altamente significative le connessioni, emerse chiaramente in sede di accesso, tra la famiglia Tripodo e soggetti legati, per via parentale, anche a figure di vertice del comune di Fondi, nonché a titolari di attività commerciali, pienamente inserite nel mercato ortofrutticolo di Fondi, Mof. Su tali aspetti appare esaustiva la scrupolosa ricostruzione operata dalla Commissione di accesso, che ben delinea il collegamento della famiglia Tripodo con elementi della mafia calabrese e clan camorristici, in particolare quello dei Casalesi.

Alcuni episodi di grave violazione della legalità:

1) E’ stato accertato dalla Commissione d’Accesso che il settore dell’urbanistica ha oggettivamente agevolato interessi economici di Salvatore La Rosa, pregiudicato e già sottoposto a misure di sorveglianza speciale di P.S., considerato affiliato al clan Bellocco di Rosarno

2) Gravi comportamenti omissivi appaiono anche nella vicenda relativa alla costruzione di ben 30 appartamenti a Fondi. Anche in tal caso il soggetto istante, tale Antonio Dirozzi, soggetto sul conto del quale sono emersi frequentazioni e rapporti con elementi collegati a clan camorristici, non aveva alcun titolo che potesse abilitarlo alla richiesta. In tale vicenda edilizia, oltretutto, si evidenzia anche il coinvolgimento non certamente secondario del Geom. Gianni Giannoni, attuale consigliere di maggioranza e vicesindaco nella precedente giunta Parisella. In tali suddetti episodi appare senz’altro centrale il ruolo del Dirigente del settore urbanistica - Arch. Martino Di Marco. Quest’ultimo annovera precedenti penali per reati propri. In data 26 marzo 2008, per citare il più recente, il Tribunale di Latina lo ha condannato a un anno e 4 mesi di arresto e all’ammenda di 30.000 Euro per il reato di lottizzazione abusiva. Ciò nonostante il Di Marco è stato «stabilizzato» dalla amministrazione Parisella.

3) E’ stata accertata la contiguità di Domenico Tripodo al Sindaco Parisella. Emergono, in particolare due significativi episodi: nel primo il sindaco Parisella interviene personalmente, presente il Tripodo, per «accreditarlo» presso l’amministrazione comunale in relazione a lavori di pulizia che avrebbe dovuto eseguire l’impresa controllata dal Tripodo, sebbene l’amministrazione comunale disponesse al momento di una propria impresa di pulizie; il secondo episodio vede addirittura la ditta del Tripodo di fatto sostituirsi ad altra impresa locale a cui era stato affidato la commessa del trasporto della biblioteca comunale.

4) E’ stata approvata nel 2002 dal Consiglio Comunale una variante al piano regolatore generale, cosiddetta variante Pantanello, che con il voto del sindaco Parisella, in palese conflitto di interessi in quanto avvantaggiato certamente dall’adozione dell’atto, ha previsto la realizzazione di una nuova strada di accesso in tale località, strada peraltro ad oggi costruita solo in parte. Sul nuovo tratto, tuttavia, oggetto di realizzazione, si affaccino alcuni capannoni industriali, tra i quali, oltre a quello direttamente riferibile al sindaco Parisella, anche altri riferibili: I) ad un consigliere comunale Antonio Ciccarelli con comprovati rapporti con La Rosa Salvatore; II) a tale Diego Alecci, carrozziere, considerato vicino alle famiglie Trani e Tripodo; III) a tale Massimiliano Forcina, socio accomandatario di una società di autodemolizione, il quale, all’esito di accertamenti in Sdi, è 5)Per la somministrazione di lavoro interinale, il comune di Fondi ad un certo punto decide di rivolgersi alla filiale fondana di una ditta campana - la GE.VI. - la cui titolarità di fatto, in base a documentali acquisizioni della commissione di accesso, è riferibile a Visconti Gennaro, vicino a soggetti camorristici, pregiudicato.

5) Assai grave inoltre appare l’inosservanza sistematica della normativa antimafia. Tale inosservanza, che è stata registrata in ogni tipo di attività contrattuale ad evidenza pubblica, è un fatto che certamente può considerarsi agevolativi rispetto all’instaurazione di rapporti contrattuali. Essa non solo riguarda numerose imprese, che hanno presentato controindicazioni di vario tipo, ma come ha posto in risalto la commissione di accesso, concerne, per lo più, soggetti imprenditoriali di origine campana, con riferimento ai quali non sembrano sussistere, né peraltro sono mai state fornite in sede di accesso, plausibili ragioni di convenienza/opportunità/necessità per farvi ricorso.

6) Garruzzo Vincenzo, già citato, risultava ammonire i debitori usurati a saldare prontamente i prestiti ricevuti, minacciando che, in caso di persistente «inadempimento», non avrebbe esitato a chiedere l’intervento di propri sodali calabresi che sarebbero venuti a Fondi proprio per spalleggiare le pretese del loro affiliato. Ed è importantissimo in questo scenario citare il fatto che il sindaco Parisella, con lettera a sua firma, ha conferito alla figlia di Garruzzo Vincenzo, Garruzzo Rosaria, l’incarico di revisore dei conti nell’ambito del progetto Equal sostenuto con fondi comunitari, incarico esauritosi a marzo 2008. L’attuazione dello stesso progetto ha visto, peraltro, tra i suoi beneficiari anche l’impresa Net Service riferibile al più volte richiamato Tripodo Carmelo Giovanni.


Le reazioni alla relazione del prefetto

Il 7 novembre 2008, in seguito a questa relazione, il prefetto Frattasi viene fatto oggetto di pesanti attacchi. In particolare, il senatore Claudio Fazzone invoca una commissione che indaghi sul suo operato: “Credo nelle istituzioni, ma ho ragione di dubitare su quanto accaduto con la Commissione d'Accesso a Fondi. Frattasi, che contesta agli altri di non saper amministrare, da commissario del Comune di Gaeta ha redatto bilanci contestati dalla Corte dei Conti. Tutti possiamo sbagliare, ma non si danno lezioni agli altri, come fa il prefetto”. Il presidente della provincia, Armando Cusani, anche lui in quota Pdl, va oltre e arriva a dichiarare che “la mafia a Fondi non esiste”. Altri spiegano che in realtà è “tutto un complotto”. Il Sindacato dei Prefetti è costretto ad esprimere solidarietà al collega di Latina.

Roberto Maroni trasmette al Consiglio dei Ministri la richiesta di scioglimento solo a febbraio 2009. Da allora sono stati sciolti due comuni, Rosarno in Calabria e Villa Literno, nel Casertano. Ma la pratica-Fondi, feudo elettorale del senatore forzista Claudio Fazzone, ora coordinatore provinciale del Pdl di Latina, rimane bloccata.

La richiesta del prefetto Frattasi si ferma una volta arrivata a Palazzo Chigi e diventata un caso politico per l'insorgere dei parlamentari del Pd. In un'interrogazione parlamentare i deputati democratici Marco Minniti, Gianclaudio Bressa e Laura Garavini chiedono al premier “quali siano le motivazioni per cui non si sia ancora provveduto a sciogliere Fondi. La situazione ordine pubblico in quel comune s'è infatti aggravata a tal punto che negli ultimi giorni ci sono stati attentati incendiari e azioni intimidatorie a danno di imprenditori di Fondi riconducibili ad un'ulteriore recrudescenza dell'offensiva della criminalità organizzata sul territorio”.

L'indagine Damasco2

Il 6 luglio 2009 la città di Fondi viene travolta da un'altra indagine della Dia di Roma con il supporto dei Carabinieri di Latina, denominata Damasco2, che porta all'arresto di 17 persone per associazione di stampo mafioso, abuso di ufficio, corruzione e falso. Tra gli arrestati, i fratelli Carmine e Venanzio Tripodo, esponenti legati a clan della 'Ndrangheta, alcuni dirigenti comunali e l'ex assessore di Forza Italia Riccardo Izzi.

Il colonnello Paolo La Forgia, capo della Dia di Roma, spiega: “E' una ricostruzione dettagliata di vari episodi, di varie indagini, talune remote altre recentissime. (…) E' stata data forma a questa associazione mafiosa che da tempo operava nel fondano. Associazione mafiosa di tipo 'ndranghestistico, la cui espressione avveniva tramite i fratelli Tripodo legati alla cosca calabrese La Minore (…) Dalla lettura dell'ordinanza di custodia cautelare, ci sono numerosi episodi che riportano a delle collusioni con funzionari del comune di Fondi. (…) Non tutte le indagini vanno a buon fine. Noi stessi della Dia nel '99 abbiamo fatto un'indagine che però non ha portato agli esiti sperati. Però è rimasta una grossa indagine, ripresa e rivisitata, e quindi ha consentito l'emissione di misure di custodia cautelare anche con riferimenti al passato. (…) Il MOF (Mercato Ortofrutticolo) ha centinaia di operatori commerciali e ovviamente sono gente assolutamente pulita, poi però ci sono alcuni settori in cui evidentemente i Tripodo hanno inteso reinvestire dei proventi provenienti dall'usura e dal traffico di stupefacenti in alcune società. Tutte e tre sequestrate, tutte e tre facenti capo a un noto imprenditore del MOF di Fondi”.

La tensione cresce. Il 24 luglio 2009, il Consiglio dei Ministri, chiamato a prendere una decisione sul possibile scioglimento del comune di Fondi, rinvia il voto. Il Governo nomina una seconda commissione d’indagine, chiede un parere alla Commissione Antimafia e infine invita il prefetto Frattasi a rivedere la relazione in base alle nuove normative sulla sicurezza appena emanate dal Governo. Ovviamente Frattasi, che ha dovuto confrontarsi anche con il Comitato provinciale per la pubblica sicurezza, giunge alle stesse conclusioni e invia una seconda richiesta di scioglimento al governo. Non c’è scampo: il Consiglio comunale di Fondi va sciolto.

Il governo tergiversa

Il 31 luglio 2009 il governo è di nuovo chiamato a valutare la situazioni di Fondi. Nuova riunione del Consiglio dei Ministri e nuova fumata nera. Comunicazione ufficiale: “Il Consiglio dei ministri ha deliberato di riconsiderare la proposta di scioglimento del consiglio comunale di Fondi, a suo tempo formulata dal ministro dell'Interno, sulla base di una nuova relazione che lo stesso ministro dovrà sottoporre al consiglio dei ministri alla luce delle modifiche introdotte dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, che entrerà in vigore nei prossimi giorni e che detta nuove norme per lo scioglimento dei comuni per infiltrazioni mafiose”.

Il parlamentare dell'Idv Stefano Pedica srotola davanti all'ingresso principale di Palazzo Chigi uno striscione con una scritta inequivocabile: "Via la mafia dalle istituzioni". “Ci risulta - dice Pedica - che anche questa volta il Consiglio dei ministri non prenderà nessuna decisione riguardo lo scioglimento del comune di Fondi per infiltrazioni mafiose, accertate e dichiarate dal prefetto di Latina. Ci sono stati 17 arresti e nessuno fa nulla”.

In seguito, la protesta si sposta all'interno della sala stampa della sede del governo, occupata dallo stesso Pedica, accompagnato dal deputato Francesco Barbato e dalla senatrice Giuliana Carlino. Doveva tenersi una conferenza dei ministri Sacconi e Gelmini, che poi si è tenuta in un'altra sala.

Il governo dice no

Il 15 agosto 2009 la decisione sullo scioglimento di Fondi viene rinviata per l'ennesima volta: almeno tre ministri sono contrari allo scioglimento.

Maroni dichiara: “Abbiamo fatto tutto ciò che si doveva. Ho già dato incarico al prefetto competente di svolgere nuovi accertamenti in modo da essere pronto al primo Cdm a portare una nuova relazione se gli esiti della prima saranno confermati”.
Berlusconi rivela: “In Cdm sono intervenuti diversi ministri. Alcuni erano contrari allo scioglimento di Fondi. Hanno fatto notare come nessun componente della giunta e del consiglio comunale sia stato neppure toccato da un avviso di garanzia. Quindi sembrava strano che si dovesse intervenire con un provvedimento estremo come lo scioglimento della giunta”.
Chi sono i ministri contrari? Lo rivela un'inchiesta de L'Espresso del 27 agosto 2009.

Sono proprio i tre ministri “amici” del senatore Claudio Fazzone: Renato Brunetta (la cui compagna, Tiziana Giovannoni, detta Titti, è cognata del sindaco di Cisterna di Latina), Giorgia Meloni (è fidanzata con Nicola Procaccini, uno degli avvocati della moglie del senatore Fazzone, a cui è intestata la villa di famiglia sequestrata perchè abusiva. Procaccini difende pure grossisti del Mof come Vincenzo Garruzzo, già arrestato per usura) e Altero Matteoli (il ministro delle Infratrutture è sceso in campo a favore di Ilaria Bencivenni, candidata sindaco di Aprilia, uno dei comuni più popolosi della provincia, dopo furiose lotte interne chiuse da un diktat del solito Fazzone). Si viene a sapere che Maroni, su pressione di questi ministri, ha dovuto fare dietrofront, facendo rinviare la votazione per ben tre volte.

Di Pietro dichiara: “Il premier fa finta di dimenticare che lo scioglimento del Comune è stato richiesto dal prefetto Frattasi circa un anno fa: cinquecento cartelle che provano l'intreccio tra mafia, politica e comitati d'affari, con 17 arresti. Ma questi signori ministri, che oggi sostengono davanti alle telecamere di battersi contro la mafia, fanno l'esatto contrario: premiano i malavitosi e condannano i cittadini di Fondi a convivere con la mafia. Così è sempre più chiaro a tutti da che parte sta chi ci governa”.

Il capogruppo Pd all'Antimafia Laura Garavini propone un'interpellanza parlamentare: “Chiedo informazioni sulla società che ha sede a Fondi, denominata SILO srl, della quale sono soci l'attuale sindaco di Fondi, Luigi Parisella, il senatore Pdl, Claudio Fazzone e tale Luigi Peppe. Detta società, che dovrebbe occuparsi di lavorazione di prodotti agricoli, è di fatto inattiva ma possiede una struttura industriale situata in un'area interessata da una variante urbanistica detta Pantanello, che ha inciso significativamente sul valore del capannone della Silo come di altri capannoni presenti in zona. Il signor Luigi Peppe, oltre ad essere cugino del sindaco, è fratello di Franco Peppe, soggetto in rapporti certi con la famiglia Tripodo, ed in particolare con Antonino Venanzio Tripodo. Il quale, secondo alcuni collaboratori di giustizia, avrebbe usato per la consegna di armi a soggetti appartenenti al clan camorristico dei Casalesi una automobile intestata proprio a Franco Peppe”.

Anche l'Associazione Nazionale dei Prefetti protesta contro il mancato scioglimento del comune di Fondi.

La relazione di Maroni

Il 18 settembre 2009 il ministro dell'Interno Maroni, sulla base delle indicazioni provenienti dal prefetto di Latina, le precedenti indagini della Commissione Parlamentare Antimafia e in seguito alla retata della Dia di Roma, redige di proprio pugno una relazione sulla situazione del comune di Fondi.

Alcuni passi salienti:

Il comune di Fondi (Latina), i cui organi elettivi sono stati rinnovati nelle consultazioni amministrative del 28 maggio 2006, presenta forme di ingerenza da parte della criminalità organizzata tali da determinare una alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi e amministrativi e da compromettere il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione, nonché il funzionamento dei servizi, con grave e perdurante pregiudizio per lo stato dell'ordine e della sicurezza pubblica. L'infiltrazione della criminalità di tipo mafioso nell'area pontina, e più specificamente nella zona di Fondi, è segnalata da oltre un decennio sulla base di specifiche risultanze investigative.

La commissione ha acclarato, insieme alla stretta continuità tra l'attuale consiliatura e la precedente, come nell'amministrazione comunale si siano radicate anomalie organizzative e procedurali nonché illegittimità gravissime quanto diffuse, i cui esiti hanno spesso oggettivamente favorito soggetti direttamente o indirettamente collegati alla criminalità organizzata.

Ritenuto, pertanto, che ricorrano le condizioni indicate per l'adozione del provvedimento di cui all'art.143 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n.267, come sostituito dall'art. 2, comma 30, della legge 15 luglio 2009, n.94, si formula conseguente proposta per l'adozione del provvedimento di scioglimento del consiglio comunale di Fondi (Latina).


Il Consiglio comunale si dimette in massa


Il 2 ottobre 2009, proprio la mattina in cui il Consiglio dei Ministri avrebbe dovuto prendere la decisione definitiva sullo scioglimento della giunta di Fondi, arriva una notizia inaspettata. Un anno e 25 giorni dopo la richiesta di scioglimento del prefetto di Latina per infiltrazioni mafiose (respinta per ben due volte dal Consiglio dei Ministri), la maggioranza di centrodestra (Pdl con Udc) di Fondi decide di rassegnare le dimissioni, prendendo letteralmente in contropiede il governo.

Per le opposizioni si tratta di una manovra per bloccare la decisione del Cdm.
La Cgil commenta: “E' un escamotage per potersi ricandidare”.
Pedica rincara la dose: “È una mossa mafiosa che serve a evitare lo scioglimento di un comune mafioso”.
Franceschini chiosa: “Se si sono dimessi, significa che il marcio c'era”.

Da parte sua, il sindaco di Fondi, Luigi Parisella, si difende: “Non potevamo andare avanti così. Pensavo di farcela, ma io non reggo più al peso, alle pressioni politiche e mediatiche: era ora di finirla”. Parisella non fa alcun cenno all'accusa contestagli dal prefetto di conflitto di interessi per aver votato una variante urbanistica che ha favorito una società (la Silo srl), nella quale è socio insieme al senatore Pdl Claudio Fazzone e al parente di un pregiudicato.

Il commissario straordinario

Il 9 ottobre 2009 il governo, non potendo più sciogliere il comune di Fondi ormai dimissionario, si limita a nominare un commissario straordinario che sostituisca il sindaco e indice nuove elezioni amministrative previste per marzo 2010. Si tratta di Guido Nardone, esperto di infiltrazioni mafiose negli enti pubblici. Si andrà dunque alle elezioni. Gli ex amministratori di Fondi potranno ricandidarsi, tranne Parisella, ma solo perché è già stato eletto sindaco per due volte consecutive.

Pedica sottolinea: “In questa maniera però gli stessi consiglieri che da mesi sono chiacchierati per presunte collusioni con la mafia potranno ripresentarsi alle prossime elezioni”.
Maroni si difende rivelando che la scelta di non sciogliere Fondi è stata premeditata: “Di comuni accusati di infiltrazioni mafiose ne ho sciolti 12, quattro in più rispetto al precedente esecutivo. Ma per Fondi ho preferito le elezioni. Ora il popolo potrà scegliere i nuovi amministratori”.

Approfondimenti

Il 15 luglio 2009 è stata varata, all'interno del pacchetto sicurezza, la legge L 94/2009, “Disposizioni in materia di sicurezza pubblica”, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 170 del 24 luglio 2009. E' la legge a cui fa riferimento lo stesso ministro Maroni nella sua relazione del 18 settembre 2009, in cui intimava lo scioglimento del comune di Fondi.

Gli articoli più rilevanti:

1. L'articolo 143 del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, è sostituito dal seguente: Art. 143. - (Scioglimento dei consigli comunali e provinciali conseguenti a fenomeni di infiltrazione e di condizionamento di tipo mafioso o similare. Responsabilità dei dirigenti e dei dipendenti). Fuori dei casi previsti dall'articolo 141, i consigli comunali e provinciali sono sciolti quando, anche a seguito di accertamenti effettuati a norma dell'articolo 59, comma 7, emergono concreti, univoci e rilevanti elementi su collegamenti diretti o indiretti degli amministratori di cui all'articolo 77, comma 2, con la criminalità organizzata di tipo mafioso o similare ovvero su forme di condizionamento degli stessi amministratori, tali da determinare una alterazione del procedimento di formazione della volontà degli organi elettivi e amministrativi e da compromettere il buon andamento o l'imparzialità delle amministrazioni comunali e provinciali, nonché il regolare funzionamento dei servizi ad esse affidati, ovvero che risultino tali da arrecare grave e perdurante pregiudizio per la sicurezza pubblica.

5. Anche nei casi in cui non sia disposto lo scioglimento, qualora la relazione del prefetto rilevi la sussistenza degli elementi di cui al comma 1 con riferimento al segretario comunale o provinciale, al direttore generale, ai dirigenti o ai dipendenti a qualunque titolo dell'ente locale, con decreto del Ministro dell'interno, su proposta del prefetto è adottato ogni provvedimento utile a far cessare immediatamente il pregiudizio in atto e a ricondurre alla normalità la vita amministrativa dell'ente, ivi inclusa la sospensione dall'impiego del dipendente, ovvero la sua destinazione ad altro ufficio o altra mansione con l'obbligo di avviare il procedimento disciplinare da parte dell'autorità competente.

10. Il decreto di scioglimento conserva i suoi effetti per un periodo da dodici mesi a diciotto mesi, prorogabile fino ad un massimo di ventiquattro mesi in casi eccezionali, al fine di assicurare il regolare funzionamento dei servizi affidati alle amministrazioni, nel rispetto dei princìpi di imparzialità e di buon andamento dell'azione amministrativa.

11. Gli amministratori responsabili delle condotte che hanno dato causa allo scioglimento non possono essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali che si svolgono nella regione nel cui territorio si trova l'ente interessato dallo scioglimento, limitatamente al primo turno elettorale successivo allo scioglimento stesso

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Si dimetta chi ha taciuto sulla trattativa 19 Oct 2009 4:58 AM (16 years ago)


<<Le belle parole del Procuratore Grasso al TG3 per noi purtroppo sono amare come il fiele. Intanto perché troppe bugie abbiamo ascoltato in questi anni, mentre cercavamo giustizia completa per la morte dei nostri parenti, e perché le conseguenze delle quali il PNA (Procuratore Nazionale Antimafia, n.d.r.) parla oggi con grande semplicità, noi le abbiamo pagate tutte e senza sconti.

Non ci interessa se si è cercato di fermare una deriva stragista con interlocutori credibili, e ancora meno ci interessa se non si è riusciti a non riconoscere a “cosa nostra”, malgrado lo sforzo, un ruolo tale da essere a livello di trattare con lo Stato. Quella sbagliata e vigliacca trattativa giocata tutta sulla pelle dei nostri figli, non solo ha avuto conseguenze dolorosissime , ma è stata la dimostrazione della totale impotenza dello Stato contro la mafia.

Impotenza che permane ancora oggi e lo sanno tutti benissimo, visto come sono trattate le nostre vittime.
Si dimettano quindi come primo provvedimento da qualunque incarico pubblico e politico, quanti hanno messo a punto una trattativa più che ignobile con la mafia e quanti erano a conoscenza della trattativa con “cosa nostra” già dal 1992 e si sono chiusi in omertosi opportunistici silenzi per sedici anni. Da questo momento in poi dedicheremo tutte le nostre forze, a cercare di perseguire attraverso la legge, quanti sono responsabili in Italia insieme alla mafia della morte dei nostri parenti.

Diciamo altresì che rivelare oggi dopo 16 anni una trattativa nei termini nei quali l’ha rivelata il PNA Grasso, ovvero dire :
“Era un momento terribile, bisognava cercare di fermare questa deriva stragista che era iniziata con la strage di Falcone. I contatti servivano a questo e ad avere degli interlocutori credibili. Ma il problema era quello di non riconoscere a “cosa nostra” un ruolo tale da essere al livello di trattare con lo Stato, ma non c’è dubbio che questo primo contatto ha creato delle aspettative che poi ha creato ulteriori conseguenze”, è una cosa che nessuno ci farà mai ingoiare per il quieto vivere di certi uomini dello Stato, i quali dovrebbero non solo cambiare mestiere, ma vergognarsi di indossare una divisa, una toga, di nascondersi dietro ad un simbolo politico, ad una carica istituzionale.

E ancora di più dovrebbero vergognarsi di aver nascosto per sedici anni a delle madri i nomi di chi ha ucciso i loro figli, ma soprattutto i nomi di chi li ha lasciati uccidere, perché dovevano tenere nascosta una vergognosa trattativa andata male.

Ammesso e non concesso che tutto questo sia la verità, perché a questo punto potrebbe benissimo essere ancora un tentativo per riallungare quella coperta che per troppi ormai insistiamo è davvero corta, siamo stanchi di bugie e mezze verità, meritiamo rispetto e invece sentiamo intorno a noi solo desolante isolamento.>>

Cordiali saluti

Giovanna Maggiani Chelli
Associazione familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Una vita da Mesiano 16 Oct 2009 3:46 AM (16 years ago)



Ho deciso. Vado a fare la tessera del PDL.

Dopo quello che ho visto in tv questa mattina, mi hanno convinto. Ho capito finalmente perché il nostro premier è l'uomo più perseguitato della Storia, quella con la S maiuscola. Ho capito anche che lui è veramente il miglior presidente del consiglio degli ultimi 150 anni e che l'ha detto solo perché è di una modestia smisurata che neanche San Francesco, perché avrebbe potuto benissimo dire che lui è stato il migliore della Storia, sempre quella con la S maiuscola, di tutti i tempi e di tutte le nazioni. E si sarebbe tenuto ancora stretto. Ho realizato finalmente quanto lui sia buono e giusto, anzi: troppo buono e troppo giusto. Troppo buono perché la sua bontà sia concepita (come accade solo agli uomini degni, appunto, di un tale appellativo) e troppo giusto perché la sua giustezza sia riconosciuta tale. Ammetto di aver vissuto in un tremendo inganno, in una tremenda bolla di sapone, creatami intorno ad arte da tutti quei giornali insuflati di spirito comunista. Ora che ho visto la luce, davvero non riesco a capacitarmi di come io abbia potuto lasciarmi ingannare per così tanto tempo.

Immagino che a questo punto anche voi vorrete sapere cosa mi ha aperto gli occhi definitivamente, cosa mi ha ridestato dal sonno della ragione. Non ci crederete, ma quella cosa ha un nome e quel nome è: Claudio Brachino. Mai avrei pensato che un giornalista di tal fatta avebbe avuto su di me un'influenza tanto sconvolgente. D'ora in poi non smetterò più di ringraziarlo. Da qui alla fine dei miei giorni. Grazie Claudio. Grazie Brachino. Anzi: posso chiamarti Braq? Grazie Braq. Mi hai salvato la vita. Hai impedito, in una fredda mattinata di ottobre, che la mia anima fossa rapita dall'oblio comunista. E di questo ti sarò grato per sempre.

Fino ad ora ero convinto che quel giudice, come si chiama?, Mesiano? Mesiani?, insomma quello che aveva deciso di dar ragione alla Cir di De Benedetti nel processo civile di primo grado riconoscendo il torto subito e condannando Mediaset, l'allora Fininvest, allo storico risarcimento di 750 milioni di euro, avesse fatto semplicemente il suo dovere e si fosse limitato a constatare una sentenza penale ormai da tempo passata in giudicato in cui si stabiliva che Previti aveva corrotto il giudice Metta con soldi della Fininvest per far arrivare la Mondadori nelle mani del solito utilizzatore finale. Che ovviamente non ne sapeva niente e che accettò il tutto come un gentile omaggio. Avevo pensato fino ad ora che quella sentenza che Mesiano ha scritto avrei potuto scriverla pure io, avendo in mano lo scudo spaziale della pronuncia della Cassazione in merito. Un gioco da ragazzi, senza nemmeno perdere tempo a scartabellare carte. Qualcosa di assolutamente lineare e limpido. Un atto dovuto.

Ora invece Brachino mi ha aperto la mente e allargato gli orizzonti. Che idiota ero stato a dare la mia fiducia ad un giudice che in realtà, come ha abilmente dimostrato quel grande giornalista che è Brachino, della stoffa del giudice ha ben poco. Anzi. I suoi comportamenti sono alquanto sospetti. L'ho capito questa mattina guardando quello splendido programma su Canale5 che risponde al nome di Mattino Cinque. Quello, tanto per intenderci, dove il giornalista di punta è Filippo Facci. Voglio dire: chapeau. Non molte testate possono vantare di ospitare in studio certi personaggi dell'intellighenzia italiana. E qui si sta parlando indubbiamente della crème de la crème. Quindi rilassatevi sulle vostre sedie, perché voglio condividere con voi, parola per parola, il servizio giornalistico che ha cambiato la mia vita e che, spero, dia una svolta anche alla vostra. Prima che moriate tutti comunisti. E non sarebbe bello, credetemi.

Guardate. C'è Brachino in studio che brandisce un pagina di un quotidiano che titola "Il CSM promuove il giudice anti-Fininvest". Questo quotidiano è Il Giornale, cioé la testata giornalistica della famiglia Berlusconi, padrone di Fininvest. Lo dico per mettere le mani avanti. Se qualcuno comincia a parlarmi di conflitto di interessi, lo fulmino. Quella roba lì ormai è acqua passata, alla gente non gliene frega niente del conflitto di interessi, il popolo l'ha votato e gli piace così, me l'ha insegnato Bondi, me l'ha ribadito Rotondi e ma l'ha esemplificato magistralmente Capezzone e quindi smettetela di fare quella faccia lì, quella faccia un po' così, che avete voi che avete l'anima comunista. Il conflitto di interessi non è il punto. Il punto che interessa a noi in questo momento è che un giudice si è permesso di fare una sentenza che mette in ginocchio una delle aziende più floride del paese, che dà da lavorare a 20.000 persone e che ci/vi intrattiene tutti i giorni con Il Milionario e Il Grande Fratello. E' mai possibile essere più anti-italiani di così? E il CSM poi! Che s'inventa la promozione per meriti sul campo. E poi ci si stupisce che il nostro premier parli di magistratura di sinistra. Voglio dire: servono altre prove?

E poi guardate. Perchè questo è solo l'inizio. Guardate il servizio che lancia Brachino. Sono immagini esclusive che Canale5 ha raccolto con un'inchiesta giornalistica, degna, questa sì, del premio Pulitzer. Altro che Sandro Ruotolo che si diletta con cose trite e ritrite vecchie di vent'anni. Le telecamere del Biscione sono riuscite ad immortalare quel giudice, come si chiama?, Mesiano? Mesiani?, in attimi di solitudine, mentre passeggia per le vie di Milano e mette in luce tutta la sua falsità, tutta la sua meschinità, tutta la sua ambigua pericolosità.

Eccolo il giudice, ripreso di fronte, che cammina con passo spedito. Lui non lo sa di essere osservato e allora dà sfogo a tutte le sue pulsioni più perverse. Innanzitutto guardate come è vestito. Quei pantaloni blu, stretti ben sopra la vita, che nemmeno Fantozzi, gli danno un'aria vecchia, stanca, impacciata. Non c'è da aspettarsi niente di buono da uno che veste come il mio bisnonno. E su questo, converrete con me. Ha un giornale sotto braccio, è bello voluminoso, non può che essere La Repubblica con tutti gli inserti annessi. E poi è completamente fuori forma. La magliettina bianca tradisce un ventre flaccido e rotondo. Dico io: un giudice che non sa nemmeno prendersi cura della propria panza, può permettersi di dare giudizi ad una società così prestigiosa e leggendaria come la Fininvest? Basterebbe già questo a rendere nulla la sua credibilità. Ma vi ripeto, questo è solo l'inizio. Ne vedrete delle belle tra poco. Siete pronti?

Ecco Raimondo Mesiano (che nome insulso) che è arrivato a passo lento alla sua meta. Sapete cos'è? Tenetevi forte. Il negozio di un barbiere! Una cosa a dir poco vergognosa. Ma come si fa? Un giudice che invece di lavorare pensa a farsi bello. Dice: la giustizia non funziona, la giustizia è lenta. E ti credo! Con giudici come questi, che invece di andare in ufficio ciondolano per Milano e passano le ore ad attendere l'apertura del negozio di un barbiere, non si può certo andare lontano. E poi guardate. E' arrivato in anticipo! Ma è mai possibile? Rispondete a questa domanda, se ci riuscite: può essere credibile un giudice che non sa nemmeno a che ora apre il suo barbiere di fiducia? Dai, non scherziamo: qui siamo di fronte ad un soggetto, come minimo, con dei seri disturbi della personalità. Non siete ancora convinti? Certo che voi comunisti, proprio, siete duri di comprendonio. Beccatevi questa. Avete notato cosa ha in mano? Dai, ditemelo. Ecco: una sigaretta. Una sigaretta! E vi sembra normale? Da quando in qua si è visto un giudice che fuma? Non so voi, ma io me ne starei ben alla larga da un tizio così. Guardate come inspira il fumo del tabacco. E poi come espira. Ha dei problemi, questo è chiaro.

Non volete dire che è pazzo? Va bene, allora diciamo che è "stravagante". Questo me lo concederete, spero. Voglio dire, guardate come si tira su le maniche con fare indispettito. E poi passeggia! Dico, avete visto? Passeggia!!! Cose dell'altro mondo. Guardate come è impaziente. Non riesce a stare fermo. Sembra un leone in gabbia. Cammina avanti e indietro, avanti e indietro, avanti e indietro. Ho quasi pena per lui. Chissà quali problemi psicofisici lo spingono ad un simile comportamento, obiettivamente indecoroso per il ruolo che ricopre. Ma lui non si scompone: va avanti e indietro, avanti e indietro. Come se niente fosse. Roba da chiamre il 113 seduta stante.

Poi finalmente arriva il barbiere che apre il negozio. E dico finalmente perchè chissà cosa avrebbe potuto fare se avesse dovuto attendere ancora cinque minuti. Non so davvero se sarebbe riuscito a contenere la sua impazienza o sarebbe esploso arrivando a compiere un gesto inconsulto. Grazie a Dio il barbiere è arrivato e ha evitato che si compisse un nefasto evento. Eccolo, il giudice, finalmente rilassato sulla poltrona, mentre si fa fare lo shampo e si fa insaponare il viso con la schiuma da barba. E' un'indecenza bella e buona. Se solo il CSM avesse potuto vedere tutto questo, forse ci avrebbe pensato su dieci volte prima di decidere la sua promozione. Meno male che le telecamere di Canale5 passavano di lì per caso e hanno potuto riprendere questo scempio. Questo schiaffo alla gente onesta.

Ma non finisce qui. Finito dal barbiere, esce e continua impunemente a passeggiare. Io non so se vi rendete conto: a passeggiare! E poi, ad un certo punto, si ferma pure al semaforo! Lo so, lo so cosa volete dire voi comunisti: si è fermato perchè il semaforo è rosso. Ma vi sembra una giustificazione? Nessuno in Italia si ferma col rosso. Lo sanno tutti. Io direi invece che si tratta di una prova schiacciante della sua indole comunista. Come tutti i comunisti, è attratto da tutto ciò che è rosso. Sicuro che, se avesse visto una luce, che so?, verde, avrebbe continuato a passeggiare con quel suo incedere stravagante. Sicuro. Ormai lo conosco fin troppo bene questo Mesiano. Ma siccome voi ancora fate spallucce, vi prego di attendere solo un attimo. Guardate, si è acceso di nuovo una sigaretta. L'ennesima della mattina. Una sconceria, non c'è dubbio.

E ora che fa?!? Questa le supera tutte. Non sono sicuro nemmeno che abbiate il coraggio di vedere quest'ultima stravaganza. Potrebbe impressionarvi. Anzi, se avete vicino a voi un minore, ditegli di allontanarsi. Non si sa mai che effetti possa fare su menti ancora acerbe il comportamento di un giudice oggettivamente psicopatico. Perfetto, ora che avete allontanato i vostri bimbi, ve lo posso dire. Siete pronti? Bene. Ecco qua: si è seduto su una panchina! Capito?!? Seduto! E per di più su una panchina! Io veramente non ho parole per esperimere il disgusto che mi riempie lo stomaco. Lo dico con sincerità. Ho quasi il vomito. Roba da codice penale. Sì perchè voi ancora non avete visto la chicca finale. Vi ho già detto del pantalone blu e della magliettina bianca. Ma niente sapete del vero orrore che quell'uomo indossa. Ora, lo so, sono immagini che potrebbero sconvolgere anche gente col pelo sullo stomaco. Ma la libertà di informazione non si può fermare. E bene ha fatto Canale5 a proporcele. Eccole: il mocassino marrone rivela un paio di calzini color turchese!!!

Ora, dopo questa, dovete ammettere anche voi che si tratta evidentemente di uno squilibrato. Io veramente spero che qualcuno abbia chiamato la neurodeliri e l'abbiano portato via prima che possa fare del male a qualcuno. Voglio dire: il mocassino marrone col calzino turchese, a Milano. A Milano! La capitale mondiale della moda. Anzi, devo dire che sono incazzato con la Moratti. Dove sono le ronde che aveva promesso? Perchè, quando c'è serio bisogno, non ci sono mai?

Meno male che il servizio è finito. Ora, come ci tiene a sottolineare l'ineccepibile Brachino, noi non vogliamo ovviamente dare giudizi e trarre conlusioni affrettte su un giudice che ha dimostrato di essere un pericolo sociale. No. Questo mai. Però un paio di considerazioni sono come minimo doverose. Stampatevi queste parole di Brachino: "Tra la stravaganza del personggio e la promozione del CSM, c'è qualcosa che non funziona". Lui sì che ha capito tutto. Lui sì che ha inquadrato immediatamente il personaggio e l'assurdità di una situazione al di là del bene e del male. E se non vi basta il contributo di Brachino, che, voi direte, è di parte, beccatevi cosa ha da dire un giornalista assolutamente indipendente come Alessandro Sallusti, vice direttore de Il Giornale. E zitti. Vi ho già detto che delle vostre lagne sul conflitto di interessi non frega niente a nessuno.

Invece di criticare sempre come fate voi, state una buona volta ad ascoltare chi ha qualcosa da dire. E' chiaro che non è solo una questione di stravaganza fisica, quella è solo la punta di un iceberg, la somatizzazione di un problema interiore molto più profondo e grave, che produce un'inaccettabile stravaganza professionale. Volete la prova regina? Eccola. Durante una causa tra due condomini per la classica rottura di un tubo dell'acqua che poi sporca il soffitto del condomino di sotto, lui, Mesiano, questo po' po' di giudice, sapete cosa si è inventato? Si è messo in testa di fissare le cause di anno in anno. Avete capito? Di anno in anno! E sapete a quando ha rimandato la prossima? Al 2011! Per un tubo dell'acqua rotto! E il CSM l'ha pure promosso!

Questi sono gli scandali veri di cui i telegiornali dovrebbero occuparsi. Altro che veline ed escort. Ora ho capito tutto. La mia mente è sgombra. Il complotto contro il nostro, anzi il mio premier, è talmente evidente che solo degli ottusi come voi, che mi state leggendo sperando che dica qualcosa contro il mio Silvio, possono ignorare.

Io vi saluto. La cosa finisce qui. Vi ho voluto bene. Ora non più. Per me ormai siete e rimarrete i soliti comunisti. Addio. Vado a fare la tessera del PDL.

Grazie Braq.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Ecco il papello di Riina! 15 Oct 2009 10:09 AM (16 years ago)



Mancino Rognoni
Ministro Guardasigilli
Abolizione 416 bis
Strasburgo maxiprocesso
SUD partito
Riforma Giustizia alla Americana sistema elettivo
con
persone superiori ai 50 an­ni indipendentemente dal titolo di studio (Es. Leonardo Scia­scia)

............
............
Abolizione del car­cere preventivo se non in fla­granza di reato;
in questo caso rito direttissimo

............
Aboli­zione del Monopolio Tabacchi



Consegnato, SPONTANEAMENTE, al colonnello dei carabinieri MORI dei ROS

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

La disinformatia de Il Secolo XIX 14 Oct 2009 9:18 AM (16 years ago)


In questi ultimi giorni sembrano aver avuto grande risonanza le rivelazioni rilasciate da Antonio Di Pietro nell'ultima puntato di Annozero, durante la quale il leader dell'Italia dei Valori ha raccontato un dettaglio assolutamente nuovo: subito dopo la strage di via D'Amelio, il 4 agosto 1992, ricevette un passaporto di copertura (sotto il falso nome di Marco Canale), fornitogli dalle autorità competenti per espatriare in Costa Rica insieme alla moglie, a seguito di un'informativa dei Carabinieri del Ros di Milano, datata 16 luglio 1992, in cui si faceva esplicito riferimento al pericolo imminente di un possibile attentato ai suoi danni. Nella stessa informativa si indicava anche il nome del giudice Paolo Borsellino come probabile bersaglio di Cosa Nostra. Successe però che, se Di Pietro fu immediatamente informato, il giorno stesso, di questo pericolo, Paolo Borsellino ne rimase all'oscuro: la busta con l'informativa, spedita da Milano con posta ordinaria, arriverà a Palermo troppo tardi, quando ormai il giudice è saltato in aria insieme ai suoi ragazzi in via D'Amelio.

La notizia della “fuga” in Costa Rica dell'allora pm Antonio Di Pietro è stata ripresa da molti giornali, che hanno preferito concentrarsi su questo episodio, oggettivamente del tutto marginale, e tralasciare le ben più importanti rivelazioni dell'allora ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli che, sempre nella stessa puntata di Annozero, ha raccontato quello che Salvatore Borsellino aveva sempre sospettato, cioè che Paolo Borsellino fosse stato messo a conoscenza della trattativa in corso tra i vertici di Cosa Nostra e i più alti esponenti del Ros, nella figura del generale Mario Mori e del capitano Giuseppe De Donno, per tramite dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito Cinacimino.

La notizia è di quelle sconvolgenti, visto che una delle ipotesi fin qui al vaglio dei magistrati è che il giudice Paolo Borsellino sia stato eliminato (ed eliminato anche in fretta) poiché avrebbe costituito un ostacolo insormontabile allo sviluppo della trattativa. Anche se De Donno si è affrettato a smentire che nell'incontro avuto il 25 giugno con Paolo Borsellino si sia mai parlato di “trattativa”, ma solo di indagini “mafia-appalti”, le parole di Martelli aprono degli scenari decisamente inquietanti.

L'attenzione dei giornali però si è concentrata principalmente su Antonio Di Pietro e sul ruolo da lui svolto in quelle concitate giornate dell'estate 1992. In successione, sabato 10 e domenica 11 ottobre, sono apparsi su Il Secolo XIX due articoli a tutta pagina a firma del giornalista Manlio Di Salvo dal titolo “La verità su Di Pietro, 17 anni dopo” e “Borsellino non volle espatriare”. Entrambi gli articoli partono da spunti autentici per arrivare, attraverso un accumulo di notizie distorte o addirittura inventate di sana pianta, a conclusioni, se non false, assolutamente discutibili. Il succo del discorso è riuscire a dimostrare, o comunque insinuare nel lettore, l'idea che Di Pietro sapesse cose sconosciute ai più e che solo ora, dopo 17 anni, si sia deciso a vuotare il sacco. Non solo. La tesi successiva è che Di Pietro, a differenza dell'atteggiamento eroico (e anche un po' masochista) di Paolo Borsellino che, informato dai Ros di un attentato ai suoi danni, si sarebbe rifiutato categoricamente di lasciare Palermo, avrebbe vigliaccamente fatto in fretta e furia le valigie per il Costa Rica senza dire niente a nessuno e senza nemmeno informare il suo “compagno di sventure” Paolo Borsellino.

Cerchiamo di vedere perché questa ricostruzione fa acqua da tutte le parti.

Nel primo articolo del 10 ottobre, Manlio Di Salvo accusa Antonio Di Pietro di aver aspettato addirittura 17 anni per confermare quello che il suo giornale aveva scritto il 23 luglio 1992, solo quattro giorni dopo la strage di via D'Amelio, e cioè l'esistenza di quella famosa informativa dei Carabinieri in cui si diceva che la mafia voleva uccidere l'ex pm di Mani Pulite. Peccato che questa informativa fosse nota da tempo e che dunque, quando Di Pietro l'ha ricordata ad Anno Zero, ha solo raccontato qualcosa che era già noto e stranoto. La notizia dell'informativa compare, per esempio, come dato accertato e mai smentito, nel libro di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, “L'agenda rossa di Paolo Borsellino”.

Poi Di Salvo si dilunga ad elogiare la propria testata giornalistica, che fu la prima ed unica, come abbiamo visto, a pubblicare la notizia riservata, ottenuta, a suo dire, da un misterioso agente dei Servizi Segreti in un bar di Milano proprio la mattina del 19 luglio, poche ore prima della strage. Agente di cui il giornalista si guarda bene da fare il nome (pur dando varie indicazioni molto specifiche) e che ha la particolarità di non aver più la possibilità di dare la propria versione dei fatti, visto che “negli anni scorsi è stato stroncato da un male incurabile” (il vizio di far parlare i morti è molto contagioso). Di Salvo autocita il suo scoop di diciassette anni prima facendo riferimento ad un coinvolgimento del clan mafioso dei fratelli Fidanzati e rivelando che Giovanni Falcone, pochi giorni prima di saltare in aria con la moglie, a Capaci, s’era incontrato con il collega Di Pietro”. Sono le stesse notizie che Di Salvo aveva pubblicato proprio nell'articolo del 23 luglio 1992. Peccato che si erano rivelate assolutamente false: l'indiscrezione del pentimento del boss Tanino Fidanzati non aveva alcun fondamento, così come il presunto incontro tra Di Pietro e Falcone, subito smentito dallo stesso Di Pietro e anche dal procuratore di Milano Francesco Saverio Borrelli. Ma Di Salvo le ripropone senza porsi troppi problemi, come se si trattasse di verità accertate. Servono evidentemente per dimostrare una certa tesi.

Quali sono dunque queste “verità su Di Pietro” anticipate nel titolo e confermate dal diretto interessato solo 17 anni dopo? Nessuna. Che Di Pietro fosse nel mirino della mafia era già noto, come detto, da tempo, era stato confermato dal Ros e Di Pietro stesso non si è mai sognato di nascondere o di smentire la notizia. Tutta la ricostruzione basata sulla soffiata di un confidente dei Servizi Segreti, che potrebbe pure avere un qualche fondamento, non ha mai avuto riscontri attendibili e soprattutto contiene informazioni false, come l'incontro tra Di Pietro e Falcone, che ne minano alla base l'attendibilità.

L'articolo del giorno successivo contiene un'accozzaglia di informazioni se possibile ancora più deformate, se non addirittura irreali. Il testo si apre con la prima menzogna: “Quella mattina del 16 luglio 1992, Borsellino aveva letto l’informativa degli investigatori dell’Arma. E all’invito pressante a spostarsi più che velocemente da un territorio che scottava, avrebbe detto: «Questa è la sede dove svolgo regolarmente il mio lavoro. Io da questo ufficio non ho nessuna intenzione di muovermi». Una decisione che ha pagato con la vita”. Notare la locuzione “avrebbe detto”, che sottintende una incertezza nella notizia, spacciata poi per vera e su cui è costruito tutto l'articolo. In realtà questa prima frase non è una menzogna: sono due menzogne messe insieme. E' falso che la mattina del 16 luglio 1992 Borsellino abbia letto l'informativa dei Carabinieri e dunque viene da sé che è pure falso che possa aver pronunciato quella frase.

Se solo Di Salvo si fosse premurato di leggere la pagina dell'agenda grigia del giudice Paolo Borsellino alla data 16 luglio 1992, si sarebbe risparmiato una figuraccia. Rivela infatti Di Salvo: “Il mattino del 16 luglio di 17anni fa, Paolo Borsellino viene scortato,come sempre, nel suo ufficio. Poco dopo lo raggiungono i carabinieri del Ros. Le facce sono più cupe del solito. D’altronde, l’allarme è più grave e serio del solito. Borsellino inforca gli occhiali e legge. Con attenzione. (...) Gli investigatori del Raggruppamento operazioni speciali tentano di convincere Borsellino che stavolta la situazione è davvero grave, più del solito. La minaccia arriva da nomi di spicco della malavita organizzata. Ma Borsellino non recede. Scuotendo il capo, dice che lui da lì non si muove. Tanto meno ha intenzione di cambiare ufficio o di sottostare a ulteriori misure di sicurezza: quelle che ha, già gli bastano.

E' veramente ammirevole la fantasia di questo giornalista, che riesce a ricostruire in modo apparentemente verosimile un avvenimento mai accaduto. Sì, perché l'agenda grigia non lascia dubbi. Alle 6:00 del mattino Paolo Borsellino è nella sua abitazione a Palermo. Alle 6:30 parte con l'aereo da Punta Raisi per arrivare a Fiumicino alle 8:00 circa. Rimarrà alla Dia di Roma tutto il giorno fino a sera tardi. Tornerà a Palermo soltanto il pomeriggio seguente dopo aver interrogato per ore il pentito Gaspare Mutolo, ma nemmeno allora passerà dal suo ufficio, andando invece direttamente a Villagrazia di Carini insieme alla moglie Agnese. Quindi è assolutamente falso che quella mattina Borsellino si rechi nel suo ufficio (essendo in aereo alla volta di Roma) ed è assolutamente falso, evidentemente, che i Ros possano averlo raggiunto lì. E' falso dunque che Borsellino “inforca gli occhialiper leggere con attenzione un'informativa che abbiamo visto arriverà a Palermo solo vari giorni dopo. Di conseguenza è falso che i Ros possano aver cercato di convincere il giudice a espatriare ed è falso che Borsellino abbia pronunciato una frase di rifiuto. Intendiamoci: molto probabilmente Paolo avrebbe reagito davvero in quel modo, se solo l'avessero avvisato. Peccato che quell'avviso non arrivò mai.

Ma perché Di Salvo allora inventa tutto questo? Per corroborare la sua tesi, molto discutibile, secondo cui i Ros avrebbero fatto di tutto per tutelare il giudice ed è stato in qualche modo Paolo Borsellino a non voler dare ascolto ai loro consigli. Quasi a scaricare le colpe della morte del giudice sul giudice stesso, che appare dunque, dall'articolo di Di Salvo, come un martire incosciente che “se l'è cercata”. Questa tesi viene supportata da un'ulteriore menzogna: “Nelle stesse ore, sempre uomini del Ros, riescono invece a convincere l’altro bersaglio della mafia: Di Pietro. Che con un passaporto falso finisce in Costarica con la moglie.” Il messaggio è chiarissimo: Borsellino quel giorno non si fa convincere dai Ros, esponendosi così a morte certa, mentre Di Pietro, sempre quel giorno (“nelle stesse ore”), accetta il passaporto di copertura e fugge all'estero. Falso. Abbiamo visto che il passaporto verrà messo a disposizione dell'ex pm di Mani Pulite solo venti giorni dopo.

Come se non bastasse, nel medesimo articolo Di Salvo si avventura in considerazioni e particolari che denotano la sua assoluta impreparazione in materia. Particolari assolutamente noti a chiunque si sia informato solo un po' sulle stragi di Capaci e via D'Amelio, fosse solo attraverso le fiction di Canale5. Di Salvo azzarda un: “E' assai probabile che, come era già successo per Giovanni Falcone (prima di saltare in aria con la moglie a Capaci), anche Paolo Borsellino fosse stato più volte minacciato di morte. Certamente quando vennero prelevati con le famiglie e trasportati quasi a forza all’Addaura, dove venne poi trovata una borsa piena di esplosivo. E dove qualcuno ipotizzò che se la fossero messa addirittura i due magistrati. Che comunque, sebbene amareggiati per quella gravissima insinuazione, erano abituati a ricevere informative che li indicavano come possibili vittime della mafia. Un po’ scuotevano la testa con fatalità, un po’ venivano costretti come per l’Addaura a spostarsi”.

C'è davvero da scuotere la testa, visto che le idee di Di Salvo appaiono molto confuse. Confonde il fallito attentato all'Addaura del 21 giugno 1989 nei confronti del giudice Falcone (e non nei confronti di tutti e due i giudici) con l'episodio del trasporto di entrambi i giudici all'isola dell'Asinara la notte del 4 agosto 1985 in seguito all'uccisione di Beppe Montana e Ninni Cassarà.

Ma c'è una chicca finale. Di Salvo conclude il suo articolo con questa frase: “La normalità finisce nella tarda mattinata di domenica 19 luglio 1992, quando il giudice Paolo Borsellino va a casa della madre per pranzare con lei. Come ogni domenica. E come non accadrà più”.

Ora, passi per l'Addaura confusa con l'Asinara, ma non sapere che la strage di via D'Amelio è avvenuta alle cinque della sera (e non “nella tarda mattinata”) e non sapere che il giudice era andato in via D'Amelio per portare la madre dal cardiologo (e non “per pranzare con lei”), da uno che dice di essere in contatto con misteriosi agenti dei Servizi Segreti, appare, come minimo, piuttosto buffo.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

La legge è ugale per tutti, ma... 8 Oct 2009 8:44 AM (16 years ago)



Dunque vediamo. La Corte Costituzionale è di sinistra, il capo dello stato è di sinistra, i magistrati fanno lotta politica e sono di sinistra, il capo dello stato controlla i magistrati di sinistra, i suoi processi sono una farsa, tutta la stampa è di sinistra, tutti i cosiddetti programmi di approfondimento sono di sinistra (tranne Porta a Porta), tutti i programmi di satira sono di sinistra, tutti i comici sono di sinistra e Rosy Bindi è più bella che intelligente. Poi? Ah ecco, dimenticavo: lui gode del 68,2% degli Italiani, che, evidentemente, sono tutto tranne che di sinistra, anche quel "virgola due". Quindi lui non si fermerà, continuerà, andrà avanti, se ne fa un baffo, il governo è più forte che mai, queste cose a lui lo caricano, agli Italiani gli caricano (sic), meno male che Silvio c'è, viva l'Italia e soprattutto viva Berlusconi. Non fa una grinza.

Ora, sarebbe troppo semplice liquidare queste parole per quello che fondamentalmente sono: uno sproloquio imbarazzante di un uomo al delirio di onnipotenza. C'è anche questo sicuramente, ma molto di più, in tutte le affermazioni che nella giornata di ieri il presidente del consiglio ha rovesciato nei microfoni che gli venivano sottoposti da giornalisti desiderosi di raccogliere il suo verbo. Prima della mostra, a braccetto con il cardinal Bertone, dopo la mostra e, immancabile, negli studi del suo portavoce personale, al secolo Bruno Vespa, che lo ha ascoltato per quindici minuti quindici, in rigoroso silenzio, il capo chino, le mani congiunte in preghiera.

Non è riuscito a smuoverlo nemmeno l'insulto villano, da tipico maschio cafonal, rivolto alla povera Rosy Bindi, che ha avuto il torto di trovare qualcosa da eccepire in merito al monologo berlusconiano e il merito di non scomporsi più di tanto e di rispondere a tono senza scendere ai livelli beceri da bar su cui il presidente del consiglio stava tentando di portare il discorso. Di fronte ad un'offesa tanto sguaiata quanto ignorante, l'unica cosa che Vespa è riuscito a balbettare, senza mai sollevare il capo e mantenendo le mani giunte, è stato un laconico "La prego...". Solo qualche giorno prima aveva preso a male parole, con l'appoggio del ministro della Difesa ("Lei mi fa schifo!"), il matematico Odifreddi che aveva osato associare il nome della Gelmini e della Carfagna alle veline.

In uno studio dove l'accusa era nella mani del duo Bindi-Casini (che facevano a gara a dire che nessuno di loro si era mai sognato di chiedere le dimissioni del premier, al massimo Di Pietro, ma quello lì è meglio lasciarlo perdere) e la difesa nelle mani del trio Berlusconi-Alfano-Castelli con l'appoggio esterno di Feltri, si è consumata una delle pagine più tristi della storia politica italiana. In quindici minuti di incontinenza verbale, Berlusconi è riuscito a palesare tutta la sua allergia ed estraneità alle più elementari regole democratiche. Ha accusato niente po' po' di meno che il presidente della Repubblica di non essersi mosso a sufficienza per sponsorizzare il Lodo Alfano presso la Corte Costituzionale, di non aver saputo o voluto esercitare le dovute pressioni sui giudici di sinistra della Consulta che lui notoriamente controlla come burattini e di averlo preso in giro visto che gli aveva assicurato che il Lodo Alfano sarebbe stato giudicato la legge più costituzionale che è mai stata scritta negli ultimi 150 anni.

Rosy Bindi ha tentato timidamente di far notare la gravità di tali affermazioni che suonerebbero male perfino se uscissero dalla bocca di un ultrà ubriaco della curva nord. E' stata assalita verbalmente dai due ministri della giustizia (neo ed ex) che hanno soffocato la sua voce, già di per sè sgraziata, con urla ancora più sgraziate. E' finita in caciara con Vespa che non sapeva più da che parte voltarsi.

Io vorrei invece prendere molto sul serio le parole di Berlusconi. La fortuna di quell'uomo infatti è che non viene mai preso sul serio. L'aveva già capito quel genio di Corrado Guzzanti più di dieci anni fa. E mentre gli altri non prendono sul serio le sue sparate, lui le mette in atto come se niente fosse, preparandosi a sparare sempre più in alto. E a ben vedere, ciò che il presidente del consiglio ha esternato, materializzandosi nell'aire di Porta a Porta, era nient'altro che la spiegazione esaustiva e dettagliata, con sottotitoli per i duri d'orecchio e di comprendonio, di quella frase sibillina che aveva buttato lì qualche ora prima: "Mi sento preso in giro".

Perchè ha usato proprio quella espressione? Perchè non ha detto "Mi sento accerchiato", "Mi sento attaccato", "Mi sento delegittimato"?. Chi l'avrebbe preso in giro? Chi si era divertito a giocare con lui? Di chi ingenuamente si era fidato? La risposta è arrivata prontamente. Quella frase era riferita in tutto e per tutto a Giorgio Napolitano. Era stato lui, con la sua firma in meno di 24 ore, a dargli la garanzia che niente avrebbe potuto scalfire il Lodo Alfano. Era stato lui ad assicurargli che avrebbe esercitato una certa influenza per condizionare il giudizio della Corte a suo favore. Era stato lui insomma che gli aveva detto di dormire sonni tranquilli, che era tutto sotto controllo, che avrebbe fatto valere il suo peso istituzionale su giudici compiacenti. L'ha detto esplicitamente, senza mezzi termini e, forse, senza nemmeno rendersi conto dell'enormità di certe affermazioni.

E allora, come si dice, delle due l'una. O Berlusconi è pazzo e queste dichiarazioni sono il frutto di una schizofrenia ormai in stadio avanzato e deve essere rimosso dal suo incarico al più presto per il bene del paese. O è vero quello che dice (ma anche se ci fosse solo un fondo di verità non cambierebbe nulla) e allora Napolitano ha il dovere di rassegnare le dimissioni immediate per indegnità e per alto tradimento alle istituzioni democratiche che egli rappresenta. Un capo dello stato che solo pensasse, o peggio millantasse, o peggio promettesse (senza necessariamente poi mantere la promessa), di essere in grado di usare la propria posizione per deviare il giudizio del supremo Consiglio garante della Costituzione, sarebbe un presidente da rimuovere senza esitazioni.

E il silenzio del Quirinale in materia è a dir poco preoccupante. A quanto pare, Napolitano si è sentito particolarmente offeso dalla battuta "Si sa da che parte sta" e ha tenuto a rispondere piccato: "Certo, si sa da che parte sto. Sto dalla parte della Costituzione!". Invece sembra che quelle parole che lo accusano apertamente di poter manipolare a piacimento i giudici della Consulta siano passate via senza lasciare traccia. Senza che il Quirinale sentisse il bisogno di rispondere a tali pesantissime insinuazioni. Nemmeno con un monito pacato. Nulla, il silenzio. Chiedo: è più grave sentirsi dire di essere di estrazione comunista (cosa vera e innegabile) o di essere un cospiratore contro l'imparzialità della Corte Costituzionale?

Ma, in un certo senso, gli sta bene. Fedele alla sua estrazione comunista, Napolitano ha fatto, in questo anno e mezzo di governo Berlusconi, quello che tutti gli esponenti dell'ex partito comunista che hanno retto e ancora oggi reggono le file del PD, da D'Alema a Veltroni, da Violante a Bersani, hanno fatto nella loro vita: assecondare gli istinti autoritari di Berlusconi, blandirlo, corteggiarlo, vincere la sua simpatia, per poi essere puntualmente rinnegati, schiaffeggiati, umiliati, derisi e abbandonati. Quale sarebbe la colpa grave di Napolitano, secondo Berlusconi? Di che può lamentarsi? Gli ha firmato tutto senza fiatare e con la massima solerzia. Non ha mai alzato una volta la voce nemmeno nei momenti in cui Berlusconi si è trovato in situazioni paurosamente imbarazzanti, più per il Paese che per sè. Quando Berlusconi, un giorno sì e l'altro pure, attaccava i magistrati, Napolitano chiedeva ai magistrati di essere sereni nel loro giudizio e di abbassare i toni. Quando Berlusconi, un giorno sì e l'altro pure, attaccava l'opposizione, Napolitano chiedeva all'opposizione di cercare il dialogo nell'interesse del Paese e di abbassare i toni. Quando Berlusconi partiva a testa bassa in un'offensiva mai vista contro la stampa, Napolitano invitava la stampa a lavare i panni sporchi in casa nostra e ad abbassare i toni. Quando Berlusconi trasformava Palazzo Grazioli in un bordello di Stato, Napolitano invitava a non dar spazio al gossip e ad abbassare i toni.

Ora, anche lui deve sorbirsi questo calice amaro. Usato e poi ripudiato puntualmente dal presidente del consiglio, così come è solito fare con le sue escort. Una gran brutta fine, non c'è che dire, Presidente. Nemmeno l'aver posto la sua augusta firma ad una legge palesemente incostituzionale, che lo salvasse da sicura condanna nel processo Mills, l'ha potuto salvare delle ire di Silvio. Ma non si crucci: lei, più di così, proprio non poteva fare. E' lui che è un tantino esigente.

Vorrei concludere con un paio di considerazioni sulle argomentazioni imbastite dall'allegra brigata del Pdl a difesa del Lodo Alfano. Argomentazioni che sono state prontamente distribuite a tutti dall'ineccepibile avvocato Ghedini (quello de "la legge è uguale per tutti, ma non la sua applicazione") e che tutti, scrupolosamente, si sono premurati di ripetere ad ogni microfono che trovassero sotto mano.

La prima argomentazione è che la Consulta, con questa decisione, si sarebbe contraddetta e avrebbe smentito il verdetto di qualche anno fa sull'analogo Lodo Schifani. Scusate. Mi sono perso qualcosa o anche il Lodo Schifani era stato incenerito perchè palesemente incostituzionale? Dove sarebbe la contraddizione? A parte questa sottigliezza, l'argomento è che la Consulta nel 2004 non aveva ritenuto che il Lodo Schifani violasse l'articolo 138, quello che stabilisce che per modificare la Costituzione ci vuole una legge costituzionale e non ordinaria. Ergo, non si capisce perchè ora se ne vengono fuori con questa storia della legge costituzionale. E sembra quasi che si sentano offesi, presi in giro dalla Consulta. Guardateli in faccia questi Ghedini, Bonaiuti, Schifani, Pecorella, Gasparri. Hanno la faccia di quelli che avevano fatto di tutto per seguire "le indicazioni della Corte" e, per qualche inspiegabile motivo, ora la Corte ha deciso che non va bene un'altra volta. Sono proprio dispettosi questi giudici.

Mi stupisco che nessuno, nel panorama politico italiano, abbia fatto notare molto semplicemente che nel 2004 la Corte, stroncando il Lodo Schifani perchè violava una serie interminabile di articoli, non ha dato nessuna "linea guida", non ha invitato nessuno a rifare un'altra legge porcata di quel tipo. Non l'ha mica ordinato il dottore che l'Italia debba avere qualcosa come il Lodo Alfano. Perchè qui sembra quasi che sia stata la Consulta a chiedere al Parlamento di modificare il Lodo Schifani, il Parlamento l'ha modificato come aveva chiesto la Consulta e ora la Consulta dice che non va ancora bene. Siamo alla follia. La Consulta si limita a giudicare la costituzionalità delle leggi che le vengono sottoposte. I due verdetti sono assolutamente chiari: il Lodo Schifani era qualcosa di aberrante; il Lodo Alfano è leggermente meglio, ma sempre incostituzionale è. L'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è qualcosa che non si può calpestare. Lo capirebbe anche un bambino.

La seconda argomentazione che ho sentito è che il Lodo Alfano era una legge giusta e necessaria perchè tutela non tanto Berlusconi, quanto i cittadini: se Berlusconi deve perder tempo a difendersi nei processi, non ha più tempo per badare al bene del Paese, che l'ha votato e vuole che governi. Argomentazione facilmente smontabile, visto che: 1) Berlusconi era imputato in quei processi da molto prima che venisse eletto nel 2008 e quindi sapeva benissimo che, se fosse stato eletto, avrebbe dovuto sottrarre tempo al suo mandato per presenziare alle udienze. Non gliel'ha ordinato il medico di candidarsi. 2) Gli Italiani sapevano benissimo che Berlusconi era imputato in quei processi da molto prima che venisse eletto nel 2008 e, se ora temono che Berlusconi debba sottratte tempo al suo mandato per difendersi nelle aule di tribunale, potevano pensarci prima. Non l'ha ordinato il dottore di votare per un pluri-imputato. 3) Berlusconi è da vent'anni, prima ancora che scendesse in campo, che viaggia alla media di due-tre processi in corso contemporaneamente. Non si è mai sognato di presentarsi una sola volta davanti ai giudici. In Tribunale non ci ha messo mai piede. Ci manda i suoi avvocati, due o tre alla volta. Si è ripresentato per sei volte di fila alle elezioni senza mai porsi il minimo problema di un'incompatibilità tra la figura di imputato e quella di presidente del consiglio. Non si vede perchè se ne debba preoccupare adesso. 4) Berlusconi, dopo che era stato bocciato il Lodo Schifani, ha continuato a governare come se niente fosse mentre nelle aule di tribunale si discuteva se avesse corrotto giudici e avvocati per comprare sentenze o avesse corrotto guardie della finanza per occultare evasioni fiscali. Non si vede perchè non possa fare la stessa cosa ora che è stato bocciato il Lodo Alfano.

E poi, la considerazione a mio parere più delicata. Che va a toccare i principi base su cui si fonda un sistema democratico. Fino a che punto la volontà popolare può legittimare l'operato di un governante? E' giusto ed accettabile che un governante si senta legibus solutus per il solo fatto di aver ricevuto la maggioranza dei consensi? Qualora il popolo decidesse di conferire nelle mani di un solo governante tutti i poteri, si potrebbe parlare ancora di democrazia per il solo fatto che la decisione è stata presa a maggioranza? E' veramente questo il senso della parola "democrazia"? Perchè non so se è chiaro: il Lodo Alfano stabiliva l'improcessabilità per qualunque tipo di reato penale, per tutto il mandato, delle quattro più alte cariche dello stato. Questo significa che Berlusconi avrebbe potuto per assurdo uccidere il capo dello stato e gli esponenti dell'opposizione ed ottenere di fatto il potere assoluto senza che la giustizia potesse fermarlo.

Non è un paradosso. E' la follia di una legge meschina, costruita ad hoc per salvare Berlusconi dai suoi processi, che avrebbe potuto generare mostri. Per fortuna, l'ultimo baluardo a garanzia della Costituzione ha retto (per questa volta) e non ha sancito l'assioma devastante per cui l'investitura popolare equivale ad essere sollevato al di sopra della legge.

Al di sopra del bene e del male.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Che schiaffo, Presidente! 7 Oct 2009 8:16 AM (16 years ago)



ROMA
- Il Lodo Alfano è illegittimo. Così si sono pronunciati i giudici della Corte Costituzionale. La legge che sospende i processi delle quattro più alte cariche dello Stato è stata bocciata per violazione dell'art.138 della Costituzione, vale a dire l'obbligo di far ricorso a una legge costituzionale e non ordinaria. Il Lodo è stato bocciato anche per violazione dell'art.3, ovvero il principio di uguaglianza.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Beata ingenuità 3 Oct 2009 7:26 AM (16 years ago)



E' bellissimo. Questo paese è straordinario. A Roma, in Piazza del Popolo, c'è una manifestazione indetta dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana per difendere la libertà di informazione a cui partecipano 300.000 persone e, per vederla, su quale canale mi devo collegare? Su Rete4. Anzi, di più: sul Tg4. Anzi, di più: sul Tg4 diretto per l'occasione dal direttore Emilio Fede. E' una cosa strepitosa. Una cosa che, devo dire, mi riempie di buon umore.

E' per cose come queste che io, in fondo, amo l'Italia. Ammettetelo. In quale altro paese si sarebbe potuta inventare una sceneggiatura tanto esilarante? Emilio Fede che patrocina la diretta su una manifestazione in difesa della libertà di stampa. Come se Bernardo Provenzano scendesse in piazza a manifestare contro la mafia. Credo veramente che, dopo aver visto questo, ho visto tutto. Grazie Emilio. Di cuore.

La cosa, da ridicola, si fa grave se si pensa che la mossa geniale del direttore del Tg4, e che sia geniale è fuori discussione, non è assolutamente estemporanea, ma si inserisce perfettamente in una particolare strategia comunicativa che il presidente del consiglio ha imposto ai suoi dipendenti da qualche tempo a questa parte. Se non li posso mettere a tacere, li sbeffeggio mediaticamente. E i mezzi non mi mancano. Il via è stato dato dalla surreale puntata di Porta a Porta di giovedì scorso che, sovrapponendosi in parte ad Annozero, ha riproposto tali quali interi spezzoni del programma di Santoro, andati in onda dieci minuti prima, con il solo scopo di ridicolizzarli e, ridacchiando sornione, domandare ai telespettatori: "Ma davvero voi pensate che in Italia non ci sia libertà di informazione?"

Come se Provenzano, sceso in piazza per protestare contro la mafia, domandasse: "Non vedete che sto protestando contro la mafia? E allora come vi salta in testa di sospettare che sono mafioso?". Geniale. Se non fosse che dei retroscena imbarazzanti hanno smascherato il tutto. Il pomeriggio di giovedì, poche ore prima del programma, Vespa è stato chiamato a Palazzo Grazioli. No, non si trattava di orge con escort questa volta. Era solo per concordare come confezionare la puntata di Porta a Porta in modo che demolisse tutto ciò che si sarebbe detto qualche minuto prima ad Annozero. Vespa, dopo essersi sorpreso di trovare nella dimora del premier anche Maurizio Belpietro, lì per lo stesso motivo, ha preso nota delle indicazioni di Berlusconi su come impostare la puntata, su come sputtanare Santoro e su come delegittimare i suoi ospiti. E, già che c'era, ha invitato pure Belpietro nel suo salotto televisivo. Belpietro ha tentato di schermirsi dicendo che era già invitato da Santoro. Ma Vespa, senza scomporsi, ha risposto: "Appunto!". Si chiama ottimizzazione delle risorse.

Ne è venuta fuori una puntata grottesca, che ricordava un misto tra Il Processo alla Tappa di Sergio Zavoli e il Dopo Festival di Fiorello. Geniale. Vespa, forse inconsapevolmente, giovedì ha creato un nuovo modello di televisione. La televisione riparatrice. C'è un programma che dice cose sgradite? Non possiamo far chiudere quel programma? Bene. Arriva Vespa che ripara e riequilibra. In tempo reale. Senza far passare nemmeno un istante. Prima che le cose sgradite sedimentino nei cervelli dei telespettatori. Non si era mai vista una roba simile sui teleschermi della televisione pubblica. E' la realizzazione concreta e fisica di quel concetto che da mesi i berluscloni cercano di far passare. E' necessario riequilibrare. E' necessario imporre un contraddittorio.

Come se la verità dei fatti scaturisse dalla contrapposizione di due idee opposte. Magari bislacche entrambe, purchè opposte. E' un abominio intellettuale che si sta facendo strada come un virus. E' da mesi che il direttore di Rai2 Mauro Masi sta tentando di imporre a Santoro una presenza riparatrice di centrodestra che faccia da contraltare a Travaglio. Per fortuna nessuno ha ancora ceduto ad un'oscenità simile. Innanzitutto perchè qualcuno dovrebbe spiegare a Masi che Travaglio è tutto tranne che di centrosinistra. E secondo, perchè pensare che, per ogni giornalista che appare in televisione e che esprime un'idea, ci debba essere di fianco la badante che argomenta le ragioni dell'idea opposta è qualcosa che non si può nemmeno chiamare fascismo, come qualcuno fa. E' qualcosa di banalmente idiota.

Così oltre al danno c'è pure la beffa. Ed Emilio Fede ha buon gioco a sguinzagliare la sua inviata tra i manifestanti di Piazza del Popolo per porre loro leggiadre domande provocatorie. Tipo: "Lei pensa che il Tg3 sia libertà di informazione?". In studio insieme a Fede, il fido Piero Ostellino, quello che sul Corriere scrive di essere un liberale, di sentirsi un liberale e che comunque lui in fondo è stato sempre un liberale, e pure Sansonetti, direttore de L'Altro, il quotidiano della sinistra, che pensa in modo diverso dalla sinistra, talmente diverso che sembra quasi berlusconiano. Uno spettacolo obiettivamente indecente: una trasmissione che avrebbe dovuto patrocinare la manifestazione in difesa della libertà di stampa usata per prendere per il culo i partecipanti, al grido: "Ma voi pensate veramente che in Italia non ci sia libertà di informazione?"

Il disgusto è grande. E pensare che esistano cosiddetti giornalisti che si offrono da complici ai giochini un po' infantili di Fede che si diverte a tampinare da studio "le signore col cappello bianco" è veramente mortificante. E poi. Perchè mai un giornalista dovrebbe essere contrario ad una manifestazione in difesa dei propri diritti? Essere a favore della libertà di stampa significa essere contro il governo? E, se sì, non ci si dovrebbe allora porre qualche domanda?

E' quanto sostenuto infatti dall'esimio direttore del Tg1 che, in prima serata, dopo l'editoriale di qualche mese fa in cui spiegava i propri silenzi sul caso D'Addario definendo assolutamente incomprensibile la scelta delle altre testate di dare spazio al gossip, si è preso un altro minuto e mezzo della televisione pubblica per spiegare come fosse per lui incomprensibile una manifestazione per la libertà di stampa in Italia, che chi pensa che davvero ci sia un bavaglio all'informazione è un comunista e che i comunisti non hanno mosso un dito quando venivano querelati i giornali di Berlusconi. Sempre con lo stesso sorrisino beffardo dell'altra volta. Sempre con quella parlata robotizzata che incute un certo terrore. Come un automa programmato per uccidere. Mai si era assistito, sul telegiornale della rete ammiraglia del servizio pubblico, a una scesa in campo così sfacciata per difendere le ragioni di una ben precisa parte politica. Neanche si trattasse del Tg4 di Emilio Fede.

Ma io in fondo non mi sento di dar loro torto. Fanno benone a fare quello che fanno. Fa benone Vespa a insultare Santoro dicendogli che è un privilegiato in Rai mica come lui che quando è stato rimosso dal Tg1 dopo averlo portato ad ascolti fantasmagorici nessuno si è mosso in sua difesa, anzi la stampa si dovrebbe vergognare di non aver preso allora le difese di un paladino così integerrimo della neutralità e dell'imparzialità. Fa benone Fede a prendere per il culo i partecipanti alla manifestazione dicendo che se c'è la Dandini e Floris e Santoro e Di Bella e Crozza e Le Iene e Glob e Blob allora l'Italia non può che essere un paese libero e chi la pensa diversamente non può essere altro che uno di loro, dei comunisti, anzi dei "comunisti dei comunisti". Fa Benone Minzolini a materializzarsi nel suo Tg per spiegare alle casalinghe che manifestare per la libertà di informazione significa voler imporre un odioso regime (sic) e poi potrebbe confondersi per una manifestazione contro il governo, e questo proprio è incomprensibile visto che questo governo è uno tra i più liberali degli ultimi 150 anni.

Hanno ragione loro. E soprattutto ha ragione il nostro presidente del consiglio quando dice che questa manifestazione è una farsa. Sono d'accordo. Al cento per cento. Non fosse altro per quei pochi che vi hanno aderito credendoci veramente. Roberto Saviano su tutti. Questa manifestazione, tutto sommato, è una farsa. Una farsa perchè nessuno dei partecipanti sa esattamente perchè è sceso in piazza. Perchè la piazza è piena di bandiere del PD? Cosa c'entra il PD con la libertà di stampa? E che faccia può aver il PD di lamentarsi del regime berlusconiano quando, nel momento in cui c'era la possibilità di incenerire una delle leggi più criminose degli ultimi anni e di far cadere il governo, si è liquefatto in massa? Che faccia può avere il PD di lamentarsi del bavaglio quando un anno fa a piazza Navona una manifestazione analoga è stata disertata perchè bisognava ancora "dialogare" con Berlusconi? E, soprattutto, che faccia ha Repubblica, ad indire tale manifestazione solo dopo che Berlusconi gli ha fatto una causa milionaria per una decina di domande sulle sue frequentazioni private?

Dov'erano tutti quei giornalisti che oggi reclamano libertà e indipendenza quando entrava in vigore l'anno scorso la legge-bavaglio? Dov'erano i direttori e vicedirettori di Repubblica quando Travaglio e Di Pietro denunciavano questo sfacelo? Dov'erano quando Grillo radunava in piazza trecentomila persone per protestare contro l'asservimento della stampa al potere? Ve lo dico io dov'erano. Erano chiusi in redazione a scrivere editoriali al vetriolo contro Travaglio (vi ricordate la campagna calunniosa di D'Avanzo sulle presunte vacanze di Travaglio pagate da un boss della mafia?). Erano chiusi in redazione a scrivere editoriali al vetriolo contro Di Pietro (vi ricordate le parole schifate di Massimo Giannini dopo la manifestazione di Piazza Navona?). Erano chiusi in redazione a scrivere editoriali al vetriolo contro Grillo (vi ricordate le bordate altisonanti di Eugenio Scalfari?).

Bene. Hanno coperto per anni le porcate di Berlusconi. Hanno crocifisso con ogni insulto possibile e immaginabile (giustizialisti, qualunquisti, populisti, demagoghi, antipolitici) chiunque non si allineasse all'idea di dialogare col governo. Hanno coperto i poteri forti, dal presidente della Repubblica al presidente del Csm, mentre facevano scempio di intere procure, diffondendo notizie false e fuorvianti e avallando senza batter ciglio tutte le leggi porcata varate all'unisono dal Parlamento. Ora, d'un tratto, si sono svegliati. Rivendicano libertà. Rivendicano il loro spazio.

Per darvi un'idea, vi propongo due frasi di Massimo Giannini, vicedirettore di Repubblica, la prima datata 29 gennaio 2009 e la seconda datata 3 ottobre 2009. Fate voi il confronto.

"Di Pietro, nella sua foga populista, sbaglia totalmente il bersaglio. Lo sbaglia sul piano istituzionale (...) e cade ancora una volta nella furia giustizialista, e a tratti un po' qualunquista, del girotondismo e del grillismo".

"Un'opposizione seria e strutturata, consapevole di questo, avrebbe fatto una battaglia campale contro questa vergognosa amnistia mascherata. Avrebbe "investito" sui mal di pancia dei diffidenti del partito del premier e dei dissidenti dell'ex partito di Fini e avrebbe fatto quadrato con l'Idv".

Avrebbe fatto quadrato con l'Idv? Ma dai? Davvero?

Meglio tardi che mai, verrebbe da dire. Beata ingenuità. La stessa che ha assalito quei temerari che ancora raccolgono firme per degli appelli al capo dello stato affinchè eviti di apporre la sua firma augusta sul decreto legge sulla sicurezza che include l'abominio etico e giuridico del cosiddetto "scudo fiscale". Beata ingenuità quella di uno sprovveduto cittadino che avvicinandosi a Napolitano l'ha supplicato di non firmare: "Lo faccia per la gente onesta!". A sentire quella parola (gente onesta), Napolitano si è rabbuiato e ha preso a male parole il poveretto facendogli seduta stante una lezione di diritto costituzionale e spiegandogli che è inutile che lui non firmi tanto poi quelli la votano un'altra volta tale e quale e lui la deve firmare lo stesso, quindi che me lo chiedete a fare? Lo sprovveduto cittadino è rimasto basito da cotanta spiegazione.

Un presidente della Repubblica che ammette in pubblico che i delicati sistemi di garanzia imposti dai padri costituenti altro non sono che pagliacciate che fanno perder tempo. Io non so se vi rendete conto della gravità di una tale affermazione: io firmo perchè tanto alla fine dovrei firmare lo stesso. Denota una mancanza assoluta di responsabilità civica nelle vesti del supremo garante della Costituzione. E' possibile che un capo dello stato scenda a formulare certe argomentazioni, più consone ad una discussione da bar che ad una carica istituzionale? Non sa Napolitano che l'atto formale di non firmare una legge porcata rappresenta un segnale fortissimo lanciato al Parlamento? Qualcosa che i padri costituenti avevano previsto con oculatezza? E allora cosa ci sta a fare al Quirinale? Davvero pensa di essere solo un passacarte? E' questa la considerazione che Napolitano ha della più alta carica istituzionale?

E cosa dire dello sconcertante annuncio che avrebbe firmato la legge prima ancora che il Parlamento l'aveva approvata? Forse per convincere quei pochi parlamentari dissidenti che il proprio voto contrario non sarebbe servito a niente? E' qualcosa di gravissimo, mai visto nella storia repubblicana, che fa saltare tutto quel sistema di "pesi e contrappesi", come ama definirli D'Alema, che stanno alla base del sistema democratico.

Napolitano ha dimostrato di essere pronto a firmare di tutto. Non si è mai posto problemi di sorta. Davvero qualcuno ancora crede che un appello con venti mila firme gli possa far cambiare idea?

Beata ingenuità.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Nel nome di Paolo 28 Sep 2009 9:10 AM (16 years ago)


L'emozione. L'emozione che da bambino non ti fa dormire la vigilia di Natale. Ecco, quella: la stessa. L'autostrada, tirata a piombo, da Bruxelles a Milano e poi via, da Milano fino a Roma. Non sentire la stanchezza, un'agenda posata sul sedile posteriore, rossa. Le commesse all'Autogrill: “Ieri un signore mi ha chiesto di un nuovo giornale appena uscito, con un nome corto. Iniziava per effe”. Un fresco profumo. Roma, l'asfalto caldo del grande raccordo anulare. Alla reception dell'hotel: “Ma che è? C'è qualche gita scolastica? Come mai tutti 'sti giovani a Roma?”. Il caldo soffocante della Linea Blu. Garbatella, Piramide, Circo Massimo. “Signora, sa dove si trova piazza Bocca della Verità?”. “No, ma anch'io ci sto andando”. Le sterpaglie tristi e secche del Circo Massimo. Quella sensazione. La sensazione di star facendo qualcosa di bello, di grande, di giusto. In mano la stessa agenda, rossa.

La piazza brulicante, in attesa. Centinaia di voci, sguardi, volti. Riconoscere tra di essi quello dolce, serio, forte di Sonia. La calca affettuosa attorno a Salvatore. Cellulari, macchine fotografiche, videocamere, microfoni, taccuini, agende, immagini, mani che stringono, braccia che abbracciano, una dedica per piacere, la pazienza infinita di Salvatore. Paolo, mi fai un autografo? Paolo, per piacere, un autografo. Un autografo. Come si fa con i piloti di Formula Uno. Solo che questa gara è ben diversa. Paolo si volta, ma ha il volto di Salvatore. Non importa. In fondo, sono la stessa cosa. L'accento modenese di Marco, inconfondibile. Scoprire di conoscersi da sempre. L'esercito di Pino, capitanato da Roberto, l'uomo instancabile, sempre presente. Seduto, ma sempre presente. Il sole che ti strappa gocce di sudore dalla pelle.

Il megafono di Serenetta. Il corteo che parte, timido. Apri gli occhi, osserva. Il megafono di Sebastian. Non chiudere le orecchie, ascolta. Il megafono di Federica. Solo così sentirai il fresco profumo di libertà. La massa che si muove, lenta. Oggi mi è successa una cosa incredibile. Su le agende, su le agende. Si sollevano le agende, tutte, rosse. Quanti saremo? Cinquecento, mille, duemila? Che importa? Fuori, la mafia, dallo stato. Il ritmo che avanza, il ritmo che sale. Salvatore che guida, guardando avanti. Una mano che regge lo striscione, l'altra che regge l'agenda, rossa, ben levata in alto. Oggi mi è successa una cosa incredibile. Io oggi, mentre camminavo per le strade di Roma per venire qui. Fuori, Dell'Utri, dal senato. I turisti cinesi che si fermano e fotografano. I turisti italiani che si fermano e osservano, con aria stralunata. La voce sale, più convinta, meno timida. In fondo sono loro che si devono vergognare. L'altare della patria che ci guarda di traverso. Il Campidoglio con il sindaco chiuso dentro. O forse no. Le persiane serrate, per il caldo. O forse no. Oggi mi è successa una cosa incredibile. Io oggi, mentre camminavo per le strade di Roma per venire qui, io ho camminato insieme a Paolo. Via delle Botteghe Oscure. Stop. Il megafono di Gioacchino. Il ricordo di Berlinguer.

Via. La strada che si stringe. Le ombre che si allungano. Lo striscione ripiegato altrimenti non si passa. Fuori, la mafia, dallo stato. Più forte. Fuori, Mancino, dal CSM. Più forte. Fuori, l'agenda, di Paolo Borsellino. L'eco che risuona, rimbalza sconnessa sui palazzi. Sconnessa, ma forte e sincera. Le facce divertite dei turisti giapponesi. Le facce impaurite delle signore sedute al bar. L'agenda sempre in alto, rossa, per un'ora e mezza. Fa male al braccio. Ma a Salvatore no. Il suo braccio è quello più proteso, levato come un vessillo. Oggi mi è successa una cosa incredibile. Io oggi, mentre camminavo per le strade di Roma per venire qui, io ho camminato insieme a Paolo. Io ho camminato inseme ad Agostino, ho camminato insieme a Claudio, insieme ad Emanuela, insieme a Vincenzo, insieme a Walter.

La luce che torna. La piazza che si spalanca. Il profilo imponente di Sant'Agnese in Agone. Il palco. Il fischio del microfono. La calca che si distende e si scioglie nell'estuario di Piazza Navona. Fuori, l'agenda, di Paolo Borsellino. Gli ultimi rivoli della coda del corteo. Un'anziana, seduta, stranita: “Ma che è?”. “E' la manifestazione indetta da Borsellino”. “Chi? Paolo?”. “No, signora, Paolo è morto”. La signora è risentita: “Ma no! Io dico il fratello!”. Che idiota che sono. Ha ragione lei. In fondo sono la stessa cosa. Io, vi giuro, mi gira la testa. La gente addossata alle transenne. Gli striscioni posati per terra, di fronte. Viva Caselli e il pool antimafia. Si ricomincia. La voce di Serenetta che rimbomba dagli altoparlanti, rotola sul ciottolato e rimbalza sui palazzi. L'apertura di Salvatore, polo blu, voce roca, emozionata, ma potente. Oggi mi è successa una cosa incredibile. Io oggi, mentre camminavo per le strade di Roma per venire qui, io ho camminato insieme a Paolo. Io ho camminato inseme ad Agostino, ho camminato insieme a Claudio, insieme ad Emanuela, insieme a Vincenzo, insieme a Walter. Io vi giuro: ho camminato insieme a loro. Perché i loro pezzi sono dentro il cuore di ciascuno di voi.

Benny che corre su per gli scalini del palco. Un grido che spacca il microfono. Io non so se il parlamento è mafioso, ma fa di tutto per sembrarlo. Il pugno che colpisce, ritmico, il leggio. La rabbia trattenuta a stento. Gli applausi, le agende, macchie rosse sopra le teste. L'orgoglio calabrese di Pino. Perfetto, in giacca blu. Ma come fa con questo caldo? Io potrei essere uno di quei morti vivi. La forza gioiosa di Cecilia. Quattordici anni, ma una grinta da far invidia. 18 luglio 1992. La memoria che torna a quei momenti. Salvatore sul palco, alle spalle di Cecilia, come a proteggerla. Io, vi giuro, mi gira la testa. Ho problemi a parlare perché ho il cuore troppo gonfio. La lettera di Martina. Bellissima ed esatta. Quel leggero senso di vergogna. Di cosa mi occupavo, io, alla sua età? 19 luglio 1992. La voce di Martina che ci accompagna, limpida e trascinante, fino alle 17:58 e venti secondi. Finché ci sarà solo uno di noi che manterrà vivo il tuo ricordo e il tuo impegno.

La pacata lucidità di Giulio, che non c'è ma è come se ci fosse. Il microfono inclemente che spezza le sue parole, leggère ma taglienti. Una volta tolta la coperta, basta guardarli dall'alto e sorridere. Come faceva Arlecchino. L'ironia di Marco, cristallina, come sempre. La telefonata di Beppe, tranquilla, stranamente. Parla di Salvatore e lo chiama Paolo. Anche lui. Assorto, le braccia sotto il mento, appoggiate alla struttura del palco, Paolo lo ascolta. Ma ha il volto di Salvatore. Non importa. In fondo, sono la stessa cosa. Io, vi giuro, mi gira la testa. Ho problemi a parlare perché ho il cuore troppo gonfio, troppo pieno di gioia, per tutta questa manifestazione di affetto, questa voglia di giustizia, questa rabbia che io leggo in ciascuno di voi. L'abbraccio lunghissimo tra Luigi e Salvatore. Luigi, alto, forte, prestante. Salvatore, in confronto, minuto e fragile. Le pacche veementi sulla schiena di Salvatore. Pugni d'affetto, come quelli che si scambiano i calciatori dopo un gol. Fai piano, Luigi, ché ce lo rompi.

Le denunce, puntuali e appassionate, di Carlo. Vere, trancianti. La sensazione, anche, di una sottile polemica. Il non nominare mai il nome di Luigi nel ricordo di quei magistrati ostacolati nell'esercizio delle loro funzioni. Scorie di passate campagne elettorali? Ma forse è solo una sensazione. La fiera determinazione di una donna, di una madre, ma soprattutto di una figlia. Un cognome pesante: Alfano. A cosa serve mettere il tricolore sulle bare dei magistrati e dei militari se poi, quando la gente scende nelle piazze per commemorarli, mancano i pezzi più grossi delle istituzioni? La bandiera italiana stretta nel pugno di Gioacchino. La maglia, i pantaloni, le scarpe di Gioacchino. Rigorosamente rossi. La notte su piazza Navona. Verità è uguale Giustizia e Verità più Giustizia è uguale Libertà.

Non sentire la stanchezza nelle ginocchia. Le agende ancora in alto, a brillare sotto i riflettori. Tutti sul palco attorno a Salvatore. Ha ancora la forza di urlare dal microfono. Ma come fa? Io, vi giuro, mi gira la testa. Ho problemi a parlare perché ho il cuore troppo gonfio, troppo pieno di gioia, per tutta questa manifestazione di affetto, questa voglia di giustizia, questa rabbia che io leggo in ciascuno di voi. Non mi importa se non ho più voce e non riuscirò a parlare. Tanto oggi io so che ci sono degli altri che potranno gridare al mio posto. La voce ancora più rauca, ancora più emozionata, leggermente commossa. Ma il grido è potente e pauroso. Resistere, resistere, resistere.

La paura che possa crollare per la tensione. Le mani che lo sorreggono. Portate una bottiglietta d'acqua. Ma lui non crolla. Ma come fa? Anzi si divincola, quasi infastidito. Balza giù dal paco con un salto improvviso. Passa sotto lo striscione. L'energia di un ragazzino. Salvatore che ringrazia uno per uno. Mani che si stringono alla sua mano. Come fanno le rock star. Solo che qui la musica è ben diversa. I fari che si spengono. La fame che morde. Il palco smontato pezzo per pezzo. Le gambe che fanno male. La gente che si ritrova, a gruppetti, a parlare. Questo è proprio l'ultimo avamposto, l'ultimo baluardo di resistenza. Finito questo, è finito tutto. La notte romana. L'attesa infinita davanti ad un ristorante. Ancora dieci minuti de pazienza, signò! Mozzarella di bufala e caponata. Pici e fettuccine. Stracciata ed amaretto. Ma che è tutti 'sti ragazzi oggi? C'è qualche gita scolastica? Il saluto a Salvatore. Lui è ancora lì che abbraccia e ringrazia tutti. Uno per uno, fino all'ultimo. Con gentilezza e infinita pazienza. Proprio come avrebbe fatto Paolo. Perché, in fondo, sono la stessa cosa. Lui che ringrazia noi. Un'eresia. Il bus fino a Termini. Prima che chiuda la metro.

La mattina romana. Brioche e cappuccio. Un giornale nella hall dell'hotel. Parleranno della manifestazione? E' di Roma, Il Tempo. Magari sì. Un pugno al fegato. Non una riga. In compenso, a tutta pagina, l'articolo vigliacco di Jannuzzi, che gronda di bile e menzogne. Vergogna. Colazione rovinata. Ma solo per un attimo. E' un buon segnale. Vuol dire che diamo fastidio. Di nuovo in macchina. Da Roma a Milano. Via, sull'asfalto rovente del grande raccordo anulare. L'agenda rossa posata sul sedile posteriore. Fuori il sole è già caldo. E dentro, quella sensazione. La sensazione di aver fatto qualcosa di bello e di giusto. Qualcosa di grande.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Salvatore Borsellino: un amico tradì mio fratello 20 Sep 2009 7:36 AM (16 years ago)

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Salvatore Borsellino: chi sono i veri eroi 20 Sep 2009 7:35 AM (16 years ago)

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Salvatore Borsellino: ho bisogno di voi 20 Sep 2009 6:02 AM (16 years ago)

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Tremonti e i polli di Trilussa 17 Sep 2009 7:32 AM (16 years ago)

E' passata quasi inosservata un'intervista rilasciata ieri dal ministro dell'Economia Giulio Tremonti al giornalista Aldo Cazzullo del Corriere della Sera. Peccato, perché conteneva molti spunti interessanti, nonché rare perle di saggezza. Voi direte: perle di saggezza da Tremonti? Ebbene sì. Stufo di rappresentare l'ala un po' rozza, volgarotta e non acculturata del Parlamento, sembra che il nostro abbia voluto tutto d'un colpo riversare sul povero giornalista tutta la sua cultura. Ma che dico cultura: tutta la sua erudizione. Che, come si sa, è come la marmellata: meno se ne ha e più la si spande. Quel che è certo è che a Cazzullo, di marmellata in faccia, ne è arrivata parecchia.

E' un trucco per elevarsi al di sopra della media dei ministri? Può darsi. Non che ci voglia chissà che, a dire il vero, considerando i nomi che girano. Da Bossi a Calderoli, dalla Brambilla alla Carfagna, basterebbe citare qualche battuta di Gerry Scotti per ottenere immediatamente un certo status. Senza scomodare illustri filosofi e sciorinare citazioni in latino, che, più che abbellire l'intervista, l'hanno resa, a mio giudizio, paurosamente ridicola. Ma il sorriso svanisce subito se si pensa che Tremonti è colui che ha in mano il destino dell'economia italiana, ovvero il mio e il vostro futuro. Il sorriso poi si trasforma in smorfia di apprensione quando ci si accorge che cotanto sfoggio di cultura altro non serve che a sviare il discorso, evitare di rispondere alle domande e far apparire i problemi devastanti creati dalla crisi planetaria addirittura come qualcosa di positivo e di cui ci si dovrebbe rallegrare. La smorfia diviene terrore quando è ormai chiaro che dietro alle metafore, alle analogie, alle citazioni filosofiche, alle figure retoriche, c'è il vuoto universale di idee, l'assoluta incapacità di fornire una risposta adeguata al disastro economico italiano.

Riporto tutta l'intervista qui di seguito, perché è molto gustosa. Le frasi tra parentesi sono miei pensieri in libertà. Buona lettura.

Ministro Tremonti, nel Palazzo della politica si parla di complotti, di elezioni anticipate, di nuove maggioranze. Lei che ne pensa?

«Da un po’ di mesi, più che un Palazzo sembra una caverna (attenzione in questo periodo a parlare di corpi cavernosi...)».

Caverna?
«La caverna di Platone (Ah, ecco, meno male...). Nella caverna di Platone (non sapevo che Platone vivesse ancora nelle caverne) gli uomini non vedono la realtà, ma le ombre della realtà proiettate sulle pareti. Vedono immagini, profili, stereotipi, imitazioni della realtà. Il mondo esterno, la realtà, è una cosa; l’immagine della realtà, vista dal profondo della caverna, è un’altra (tutto corretto, ma cosa c'entra con il Parlamento Italiano? Nel mito della caverna di Platone erano proprio coloro che stavano all'interno, in questo caso i parlamentari italiani par di capire, a non percepire la realtà vera, ma solo ombre. E' proprio sicuro che l'analogia sia azzeccata?). C’è una drammatica asimmetria tra la realtà del Paese e del governo e la rappresentazione che se ne fa (ecco, appunto, voleva dire esattamente l'opposto). Dal lato della realtà c’è la realtà (ma va?), certo con tutte le sue complessità (in effetti...): negatività ma anche positività, crisi ma anche crescente coesione sociale (crescente cosa???). Dal lato della caverna (quindi in Parlamento), è l’opposto o il diverso. Non solo non si vede l’essere (urca, qui si torna a Parmenide), ma a volte si confonde l’essere — quello che è — con il dover essere — quello che si immagina debba essere (che si immagina o che deve?); o con il voler essere (ma sì, abbondiamo), cioè quello che per proprio conto e tornaconto si vorrebbe fosse (ma di chi sta parlando?)».


Chi lo vorrebbe? A chi si riferisce? Ai media? Alle opposizioni? Alle élites?

«Il prodotto del lavoro politico delle élites (élites???) è oggi un po’ come una nave in bottiglia (dalla caverna alla bottiglia). La nave è perfetta finché sta dentro la bottiglia (d'accordo, e allora?); e l’involucro della bottiglia è anche la stampa (credevo che i giornali servissero per incartare il pesce, non le navi in bottiglia), che tende a fornire una rappresentazione perfetta della nave (sì, e quindi?). Però è una nave che affonda appena la metti non dico in mare aperto, ma nella vasca da bagno (e certo: è una nave giocattolo!). Perché, come diceva quel tale, i fatti sono testardi (può darsi, ma cosa c'entra?).».

Quel tale è Stalin? (Veramente era Lenin...)

«Da ultimo (ma si mette a citare i comunisti?). Mi pare che prima lo avesse detto Hegel. Ma può essere che sbagli, perché milito in una formazione politica priva di 'legittimazione culturale' (ecco dove voleva arrivare! Dai non fare l'offeso però!). A chi pensa davvero non serve un 'pensatoio' (ha letto Harry Potter!!!). Un certo lavorio cultural-politico ricorda l’ironia di Barthes (citiamone subito un altro per fare vedere che non conosce solo Hegel) sul lavoro a merletto delle signorine di buona famiglia (dalla nave in bottiglia al merletto), parodia borghese del lavoro finto al posto del lavoro vero. Cosa vuole: con rispetto per i merletti, l’ozio è il padre dei vizi (e con rispetto per i felini, tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino). All’opposto, chi lavora non ha tempo per ricamare (e chi non lavora non fa l'amore). Passiamo dal ricamo alla realtà (sarà meglio...). Crisi in greco vuol dire discontinuità (vallo a dire ai cassintegrati). E discontinuità è anche opportunità (quindi la crisi è un'opportunità da non perdere?). Nelle strutture del reale (qui mi torna filosofo), abbiamo paradossalmente un dividendo positivo della crisi (e io che credevo che la crisi avesse azzerato i dividendi) in termini di ritorno dell’etica (vallo a raccontare a Papi), di consolidamento della coesione sociale (consolidamento di cosa?).

Questo non significa l’assenza della crisi (e io che mi ero già illuso); anzi, proprio perché c’è la crisi abbiamo la riduzione del conflitto (che conflitto? Quello in Afghanistan?) e l’avvio dell’economia sociale di mercato (se lo dice lui). All’opposto, nella sovrastruttura (ha letto anche Marx!!!) c’è il contrario di quello che è il Paese e di quello che è nel Paese, il tentativo ossessivo di rottura. Da una parte si chiede giustamente la celebrazione dei 150 anni dello Stato (no, veramente qualcuno chiede la celebrazione del miglior presidente del consiglio degli ultimi 150 anni dello Stato); dall’altra parte c’è una caduta del senso dello Stato (vallo a dire alla D'Addario), con un eccesso di violenza (beh, no, dai, la D'Addario era consenziente) che non corrisponde all’interesse nazionale (su questo non ci piove)».

Si riferisce agli attacchi a Berlusconi? (Ma va?)

«Esattamente. Mi riferisco a una campagna che è orchestrata come un’ordalia paragiudiziaria (non preoccupatevi, non ha idea nemmeno lui di cosa cazzo voglia dire), tra l’altro senza che alla base vi sia alcun elemento giudiziario (vallo a dire ai magistrati di Bari). Domande e sentenze (no: domande e, possibilmente, risposte). L’appello al tribunale dell’opinione pubblica (e infatti l'opinione pubblica si chiama così perché dovrebbe avere il diritto di farsi un'opinione...). Il farsi dei giornali giudici (notare l'elegante anastrofe)».

La stampa fa il suo mestiere: dare notizie, e commentarle.

«Un conto è il potere della stampa come contropotere, a tutela della libertà dei cittadini contro l’eccesso, contro il 'detournement' (ma anche contro il 'passe partout' e il 'pourpourri') del potere esecutivo. Questa è la funzione essenziale della libera stampa: rappresentare i fatti non orchestrarli (giusto), non sostituirsi al popolo (e chi mai l'ha fatto?) nel gioco democratico (non è il Monopoli...)».

Non crede che Berlusconi abbia fatto il gioco dei suoi critici, decidendo di alzare la voce e rispondere colpo su colpo?

«Chi avrebbe fatto diversamente? (Forse una persona seria?) A un’azione corrisponde una reazione (e un corpo immerso nell'acqua...). Mi chiedo piuttosto (ecco, piuttosto): tutto questo è nell’interesse del Paese? Io non credo che lo sia (forse nel caso in cui l'interesse di Berlusconi coincida con quello del paese...). Ora basta (e basta!). Credo che nell’interesse nazionale sia fondamentale uscire dalla caverna (e magari tirar fuori la nave dalla bottiglia) e guardare la realtà. E il governo è nella realtà, non nella caverna (ma non aveva detto che la caverna era il parlamento?). Per quello che fa, e per come gli italiani valutano e vedono quello che fa. (manca un pezzo di frase) Non è un caso che questo governo attraverso la crisi abbia aumentato il suo consenso (certo, se ci si attiene alle cifre che spara Papi...). Se la democrazia è un referendum quotidiano (peccato che non si arrivi mai al quorum), la realtà corrisponde positivamente al governo (eh?) e il governo corrisponde alla realtà (eh?), più di tutto il resto (non fa una piega). E se c’è una formula per uscire (ecco, sentiamo) è che, fatto il congresso del Pd, riparta davvero organicamente l’opposizione politica (hahahahaha)».

Franceschini o Bersani pari sono? (E Marino?)

«Non voglio danneggiare nessuno dei due (ma sono in tre!) con la mia preferenza (e certo, perché gli elettori del Pd si baserebbero sui tuoi consigli per decidere). L’importante è il congresso. Una svolta positiva democratica può essere data proprio dalla ripartenza dell’opposizione in Parlamento (guarda che non è mai partita). Non tanti e diversi, ma un interlocutore responsabile con cui parlare su ciascun tema (oddìo! Ci risiamo con il dialogo)».

In Parlamento c’è un’altra maggioranza possibile?

«Per risolvere i grandi problemi, come ha indicato l’esperienza dell’ultimo governo Prodi, servono grandi numeri (no: quello è per mantenere il cadreghino, non per risolvere i problemi). Prodi aveva piccoli numeri, e per di più litigiosi. Quelli che parlano oggi non hanno neanche i numeri».

Casini dice che una nuova maggioranza si trova in dieci minuti (ah beh, se lo dice Casini).

«Non credo. In ogni caso, se fosse, durerebbe a sua volta dieci minuti (e ci credo: con a capo Casini!)».

Chiede il «time out», quindi? Sembra volerlo anche Franceschini, quando nota che «il caso escort ha danneggiato anche il Pd».

«Non lo chiedo io. Lo chiede l’interesse del Paese (sempre se l'interesse del paese coincide con quello di Berlusconi...). Può essere un contributo positivo del congresso dei democratici (e basta! Abbiamo capito!)».

Anche l’ombra delle elezioni anticipate esiste solo nella caverna? (E basta con sta caverna! Adesso anche tu ti ci metti?)

«Certo. Il governo Berlusconi è stato eletto sulla base di un programma elettorale (quale?). La fedeltà al programma non è un optional (tipo il lodo Alfano?); è un elemento fondamentale dell’etica politica (tipo il condono fiscale?). Un governo senza programma o un programma senza governo (un programma senza governo? Ma che sta' a ddì?) non sono quello che serve al Paese (e te credo!) e non sono quello che è nel nostro cuore e nella nostra mente (che romanticone)».

La Lega non pesa forse troppo sul governo? (E non solo sul governo...)

«La Lega è l’unico alleato che abbiamo (io non ne farei un vanto...). La sintesi politica la fanno, e sempre bene, i due leader, Berlusconi e Bossi (adesso si spiega tutto)».

Fini rivendica più democrazia interna al Pdl. È davvero isolato? (No, solo per finta)

«La macchina politica è un po’ come un computer (Oh Gesù, un'altra similitudine!). È fatta da hardware e da software (ho paura...). È fatta dagli apparati (genitali?), che vanno dalla base verso i vertici— dagli amministratori locali agli organi di presidenza (o, indifferentemente, all'organo del presidente) — e da idee e principi, simboli e messaggi. Fini ha posto tutte e due le questioni: quella dell’hardware e quella del software (non me n'ero accorto, credevo semplicemente avesse scaricato Berlusconi). Ci sono nella politica contemporanea due forme di hardware (ah sì?), e corrispondono all’alternativa non casuale tra 'Partito della libertà' e 'Popolo della libertà'. La scelta, nell’alternativa tra partito e popolo, è stata nel senso del popolo. Partito è una struttura novecentesca; popolo è una forma diversa di fare politica (e ha un nome: populismo). Ma è politica, appunto, e non dogmatica o scolastica (sì, sì, abbiam capito: populismo). Il fatto che sia popolo e non il partito (a fare cosa?) non esclude dunque in radice forme comunque utili e necessarie di organizzazione (cioè?). E queste possono e devono essere attivate in forma sempre più intensa e organica, per scadenze, temi, decisioni; su questo credo che nessuno, neanche il presidente Berlusconi, sia contrario (ma contrario a cosa?). Si può assumere anzi che questa formula non riduca ma rafforzi la sua leadership (sì, ma quale formula?!?)».

Fini pone anche una questione di idee e principi.

«Giusto. Un computer è corpus mecanicum (ecco, ci mancava il latino), che resta inerte (è una metafora sessuale?), senza il software. E su questo campo, in questo mese, si è sviluppata l’azione di Fini. Ed è su questo, su immigrazione, interesse nazionale, tipo di patria (quanti tipi ci sono?), globalizzazione, catalogo dei valori e dei principi, che non solo tra Fondazioni ma dentro il Pdl si può e si deve aprire una discussione (vallo a dire a Berlusconi), dove vince chi convince (ma non si vinceva per acclamazione?). Una discussione preparata magari anche da un nuovo centro studi (magari diretto dal bibliofilo Dell'Utri). Questo non vuol dire cambiare il programma elettorale, ma capire il programma elettorale (non l'hanno ancora capito nemmeno loro!)».

Crisi: siamo nella fase della paura o della speranza? (Che domanda profonda...)

«Siamo in zona prudenza (questa me la segno). La paura è finita (vallo a dire ai prossimi cassintegrati), ed è finita perché sono scesi in campo i governi (sì, ecco: forse gli altri governi...). Nel mondo, un’enorme massa di debiti privati è stata girata sui debiti pubblici (Oh mio Dio!!! L'ha ammesso!!! Ci hanno scaricato addosso tutti i debiti delle banche!!!), e questo trasferimento è stato decisivo per eliminare la sfiducia (???). Non è che così i problemi sono stati tutti risolti (vorrei ben vedere!), ma la catastrofe è stata evitata (rimandata?), ricostruendo una base fiduciaria indispensabile all’economia. Proprio perché alla platea dei debitori privati si è sostituita la sovranità degli Stati (cioè i debiti non ce li hanno più le banche, ma gli Stati, cioè i cittadini: grandioso!). Il ritorno degli Stati può essere positivo anche perché porta con sé il ritorno delle regole necessarie per evitare crisi future. E il 'discorso sulle regole', nell’agenda internazionale, l’ha posto il governo Berlusconi (Berlusconi?!? Le regole?!? Hahahahaha)».


L’Italia però ha un enorme debito pubblico, che continua a crescere (ecco, appunto).

«(Vediamo adesso cosa si inventa...) La crescita del debito pubblico italiano (sì...) è causata solo dalla decrescita dell’economia (solo?), ed è comunque per la prima volta negli ultimi decenni (vediamo dove va a parare) inferiore alla velocità di crescita degli altri debiti pubblici (che culo!). Secondo le proiezioni, questo differenziale fondamentale negativo dell’Italia si chiuderà, in rapporto con gli altri grandi Paesi europei, nei prossimi anni (cioè tra qualche anno gli altri grandi Paesi europei saranno disastrati come l'Italia: che consolazione). In più abbiamo un enorme stock di risparmio e l’Italia non ha un’economia drogata dalla finanza ma la seconda manifattura d’Europa (se è per questo anche il più grande patrimonio artistico, ma cosa c'entra?). I confronti non si fanno sul passato (e no: si faranno sul futuro!), quando la crescita degli altri era drogata da un eccesso di debito privato, ma sul futuro (l'ha detto!!!). Un futuro che è tutto da scrivere (ma allora come fai a fare un confronto?!?)».

Ma per affrontarlo, vi ricordano in molti, servono le riforme strutturali.

«La riforma delle riforme è il federalismo fiscale. Non è il progetto di una forza politica, ma il futuro dell’Italia (ma non era già stato approvato? Fatelo sapere a Bossi, se no gli viene un coccolone). Che rischia di essere un Paese troppo duale. Il Centro-Nord, 40 milioni di abitanti, un medio-grande Paese europeo, da solo produce più ricchezza della media europea. Il Meridione d’Italia, 20 milioni di abitanti, grande come Portogallo e Grecia messi insieme (eh la madonna! Da dove parte il meridione per Tremonti? Dalla Baviera?), sta invece sotto la media europea. Mai come nel 'caso Italia' vale il discorso di Trilussa sulla statistica dei due polli (mancava l'ultima chicca). Non solo. In Italia di polli ce ne sono tre (credevo di più): c’è anche il terzo pollo, il pollo dell’evasione, il pollo dell’illegalità, il pollo della criminalità (ma allora i polli sono cinque!). Metà del governo della cosa pubblica è in Italia fuori dal vincolo democratico fondamentale: no taxation without representation (e un 'no Martini no party' non ci sta bene?). È questo il caso tipico dello 'Stato criminogeno' (ah lo ammette allora!), che produce irresponsabilità, amoralità, evasione fiscale (Oh mio Dio! Questo è un attacco frontale a Berlusconi!!!).

Ed il Sud ne soffre di più. Possibile che sia così difficile trovare al Sud un amministratore che non abbia la moglie o la sorella, un parente o un compare proprietario di una clinica? (Mai sentito parlare di Cosa Nostra?) La Calabria non ha quasi più i bilanci (mai sentito parlare di 'Ndrangheta?), le giunte di Campania e Puglia sono quel che sono (mai sentito parlare di Camorra e Sacra Corona Unita?). Il federalismo fiscale è la risposta che chiuderà la questione meridionale (lasciando gestire i soldi direttamente alla mafia) — oggi più che mai questione nazionale — e produrrà le risorse per le altre riforme (quali?)».

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?

Vigliacco 15 Sep 2009 6:41 AM (16 years ago)


Questo è un articolo che non avrei mai voluto scrivere.

Ma la protervia di certa carta stampata deve essere assolutamente svergognata in pubblico. Perchè ne rimanga traccia, perchè tutti possano leggere e vedere fino a che punto di meschinità ed abiezione possa ridursi un giornalista. Posto qui di seguito il testo completo dell'articolo apparso oggi sul Giornale di Vittorio Feltri. Titolo: "E al festino dell’Idv scatta il trenino. In testa De Magistris e Genchi". Firmato: la Redazione. Nemmeno hanno il coraggio di prendersi le proprie responsabilità, questi vigliacchi.

Ecco il testo.

"Maracaibo, oh oh oh. È il trenino dei valori, tutti a ballare e saltare come grilli(ni) al Paradise village del Lido di Maccarese (dalle parti di Fregene), si festeggia l’elezione in Europa di De Magistris e Sonia Alfano, ricchi premi e cotillons, bevande e musica dal vivo inclusa nei 15 euro. Ma allora le feste non le fa solo il premier? No, anche l’opposizione balla e canta il karaoke, anche l’opposizione più feroce, quella dei Di Pietro boys and girls, alias grillini prestati al dipietrismo. Sabato scorso dalle 20 alle 6 del mattino, un vero after hour sulla spiaggia, con gli onorevoli Sonia Alfano e Luigi De Magistris, l’ex pm che ha fatto il botto di voti e ora siede a Strasburgo, c’era una pazza compagnia di fieri oppositori del regime berlusconiano e di accusatori delle feste a Palazzo Grazioli, che stavolta facevano loro una festa, targata Italia dei valori.

Belle ragazze à gogo, musica, cocktail, trenini. Sì, a un certo punto la festicciola ha visto il classico trenino, con una insolita composizione: Luigi De Magistris appiccicato a Sonia Alfano seguita da Salvatore Borsellino e Gioacchino Genchi, quello del famoso «archivio segreto» su centinaia di migliaia di italiani, informazioni raccolte nell’attività di consulente per diverse procure della Repubblica. La compagnia di giro di Beppe Grillo insomma, che infatti a un certo punto è apparso come un santone sugli schermi del locale, collegato da altrove per dare il suo saluto al baccanale dipietrista. Soliti gridi di battaglia contro il sistema piduista, il bavaglio all’informazione libera (quella del blog di Grillo, magari un po’ di Repubblica e Unità, poi è soltanto voce del padrone), l’Idv unica vera opposizione, il grande inciucio alle porte e via grilleggiando. Il trenino, appresso a Genchi, proseguiva con altri onorevoli dipietristi vicini all’area grillina, come Franco Barbato. Tutti insieme appassionatamente scatenati in pista, in mezzo alle molte (belle) grilline del Meet up laziale «I grilli del Pigneto», organizzatori del festone sulla spiaggia. Ma allora le feste e le danze non si fanno solo nella maggioranza
".

Non sto nemmeno a spendere una parola sulla povertà di un testo (definirlo articolo è effettivamente troppo), scritto in un italiano stentato, zoppicante e dalla punteggiatura creativa. Non mi soffermo nemmeno (tanto è evidente) sulla confusione mentale dell'autore di cotanta opera giornalistica, che non riesce a distinguere la lievissima differenza che intercorre tra una spontanea festa fra amici e un festino a base di prostitute raccattate a botte di migliaia di euro da un pappone spacciatore di cocaina (Paolo Tarantini) per compiacere il presidente del consiglio italiano.

Mi limito a constatare la strategia perversa adottata da Feltri in queste ultime settimane e oggi portata alle estreme conseguenze con grave sprezzo del ridicolo. Mi limito ad assistere schifato a quel viscido buco nero (nero di melma) in cui Silvio Berlusconi da tempo sprofonda e in cui ha dato mandato al suo manganello tascabile Vittorio Feltri di trascinare tutto e tutti. Al grido: "Muoia Sansone con tutti i Filistei!". Peccato che i tentativi di sputtanare chiunque non sia allineato siano talmente maldestri e miserabili che un sorriso compassionevole è sufficiente a farli evaporare. Mi limito a far notare, e questa diventa roba seria, che lo "scoop" del Giornale (tale doveva probabilmente essere nell'intenzion dell'autore) è stato possibile solo grazie alla presenza di un "infiltrato", inviato da Feltri in missione top secret per montare lo scandalo. Uno scandalo riuscito veramente male, lasciatemelo dire. Il livello di bassezza di tale informazione è talmente infimo che non sono nemmeno in grado di montarne uno credibile.

Patetici inetti.

Ciò che deve allarmare è invece il solo tentativo (miseramente fallito) di inventare lo "scoop" utilizzando loschi figuri. Sì, perchè alla festa è stata individuata una ragazza ucraina, alticcia, scesa da un auto scura alle sei del mattino, che, spacciandosi per un'amica di Sonia Alfano, tentava di farsi fotografare insieme ai presenti in pose provocanti. Dopo che Sonia ha fiutato il pericolo, la ragazza è stata immediatamente allontanata. Non è difficile immaginare (è già stato fatto in passato) che la sua presenza alla festa per Sonia e Luigi De Magistris fosse in realtà pilotata da vigliacche manine esterne, al fine di porre i presenti in situazioni imbarazzanti. Gioacchino, Sonia, Luigi e Salvatore sono avvisati. Questa è un guerra sporca, lurida, a cui gente perbene come loro non sono abituati. Stiano attenti. Questa gentaglia ha dimostrato di essere disposta a tutto e di non fermarsi di fronte a niente e nessuno. Nemmeno di fronte alla fiera dignità di un famigliare di vittime di mafia. Nemmeno di fronte al dolore di chi ha perso un fratello.

Uno dei presenti ai "riti orgiastici" era infatti il fratello di Attilio Manca, l'urologo che fu costretto in circostanze tutte da chiarire ad operare in incognito un "paziente particolare" a Marsiglia. Scoprirà in seguito che quel paziente era Bernardo Provenzano. Attilio fu trovato morto il 12 febbraio 2004. Il caso fu archiviato subito come suicidio. O sarebbe meglio dire: auto-omicidio. Come Peppino Impastato. Il fratello ieri era lì a Fregene a raccontare la sua storia. Ma questo il Giornale di Feltri l'ha tralasciato.

Ha preferito evidenziare la "scandalosa" bellezza dei ragazzi presenti, senza accorgersi di aver detto l'unica verità in un mare di sconce menzogne. Quelle persone erano davvero "belle". Belle di una bellezza che certi personaggi non potranno mai cogliere nemmeno lontanamente. La bellezza dell'onestà e della pulizia morale. Della dignità e della perseveranza nella ricerca della verità. La bellezza pulita del "fresco profumo di libertà." Bellezza che non ha niente a che fare con la volgarità di una prostituta o la finzione di un parrucchino.

Il Giornale di Feltri ha preferito porre l'accento sullo scandalo vero della festa: il "trenino sfrenato" che avrebbe visto protagonisti Genchi, De Magistris, Sonia Alfano e addirittura Salvatore Borsellino. Peccato che Salvatore in quel momento se ne stesse tranquillo nella sua casa di Milano e fosse intervenuto qualche minuto prima in collegamento telefonico. Peccato che il Giornale si sia dimenticato anche di dire chi c'era a capo di quel trenino: Roberto Monaco, un ragazzo disabile in carrozzina.

Era il suo compleanno.

Vigliacchi.

Add post to Blinklist Add post to Blogmarks Add post to del.icio.us Digg this! Add post to My Web 2.0 Add post to Newsvine Add post to Reddit Add post to Simpy Who's linking to this post?